attualità, politica italiana

“Se gli Usa fanno i conti con debito e crescita”, di Giuliano Amato

Dopo le prime reazioni, vediamo invece le lezioni fornite a noi, noi italiani e noi europei, dal voto americano del 6 novembre. La lezione numero uno è per noi italiani e ci invita a smetterla di decantare la migliore qualità (rispetto al nostro) del sistema istituzionale americano, che consente agli elettori di sapere subito dopo il voto chi li governerà nel quadriennio successivo.
Sì, quegli elettori sanno subito chi sarà il loro Presidente, ma se contemporaneamente hanno eletto un Congresso nel quale la maggioranza va al partito opposto a quel Presidente, quest’ultimo dovrà quotidianamente negoziare con quella maggioranza le sue misure e ne uscirà o un governo condiviso o un governo addirittura bloccato. Né si tratta di un caso eccezionale, giacché è quello che è capitato a più presidenti prima di Obama, a lui durante il suo primo mandato e gli sta ricapitando ora dopo queste elezioni. La differenza dal nostro sistema non offre perciò particolari motivi di invidia, tanto più che i nostri governi dispongono dell’arma della fiducia, che non c’è negli Stati Uniti, e possono imporre (c’è chi ritiene anche troppo) la propria volontà al Parlamento con maxiemendamenti e decreti, che penso alla Casa Bianca guardino, loro sì, con invidia.
Sia chiaro, noi ne abbiamo tante di cose da aggiustare nella nostra forma di governo e sarà bene che lo facciamo con qualche idea chiara in testa. Mentre gli ondeggiamenti senza bussola ai quali assistiamo nei tentativi di riforma della legge elettorale dimostrano che per il momento di sicuro non è così. Ma non partiamo dalla premessa che l’erba del vicino è sempre più verde e che possa bastarci importarne un po’.
Il che ci porta alla lezione numero due. Nei mesi scorsi Washington ha ansiosamente monitorato i rischi promananti dall’eurozona per la crescita e la stessa stabilità dell’economia mondiale e per questo Obama ha ricevuto e chiamato i nostri leader. Ebbene ora dovremo noi seguire le vicende americane esattamente per gli stessi motivi.
Il rieletto Presidente ha infatti davanti a sé una brutta gatta da pelare e se non riesce a farlo già nelle prossime settimane, gli Stati Uniti potrebbero cadere in una pesante recessione, che si cumulerebbe alla nostra con effetti disastrosi su tutti noi. Ci riuscirà con il Congresso che si trova davanti?
Sta entrando in questi giorni nel lessico comune la locuzione “fiscal cliff”, che si avvia ad affiancare lo spread fra le fonti dei nostri incubi diurni e notturni. Si tratta del precipizio (cliff, che alla lettera vuol dire roccia scivolosa a perpendicolo), nel quale gli Stati Uniti possono scivolare se a gennaio diventeranno operative le misure imposte mesi fa dai repubblicani per spingere a un’azione vigorosa sul debito. Tali misure, se non rimpiazzate, comporteranno la automatica adozione di tagli di spese e di aumenti fiscali a carico dei ceti medi, che farebbero sparire oltre 600 miliardi dall’economia e le darebbero un colpo che finirebbe, come l’onda di uno tsunami, per attraversare gli oceani.
Il Presidente e il Congresso hanno la responsabilità di trovare un accordo per evitarlo e sebbene l’esperienza della trascorsa legislatura testimoni il contrario, è ragionevole attendersi che quel muro contro muro possa ora non ripetersi. Lo scopo prioritario dei Repubblicani durante il primo mandato di Obama era stato quello di estremizzare le sue difficoltà per impedire la sua rielezione. Ora quello scopo non ha più ragion d’essere e il merito delle questioni dovrebbe prevalere.
Ma qui tocca in primo luogo al Presidente trovare proprio in noi europei l’ispirazione per misure di risanamento finanziario, alle quali si è finora sottratto. Noi abbiamo ecceduto e continuiamo ad eccedere nell’austerità a senso unico, ma una lezione incoraggiante per noi è che possiamo dare lezione all’America sui modi per riportare sotto controllo i programmi di spesa che ne sono usciti.
Non basta far pagare più tasse ai ricchi, come il Presidente ha appena annunciato. Il programma di assistenza per gli anziani, Medicare, con il formidabile aumento di beneficiari dovuto al ciclo demografico e all’allungamento della vita (noi lo sappiamo bene), corre dritto verso la bancarotta nel giro di un decennio. E le spese per la difesa hanno raggiunto livelli insostenibili.
Noi, Grecia compresa, stiamo superando difficoltà e resistenze enormi per riportare in equilibrio i nostri bilanci. C’è da augurarsi che Obama e il Congresso sappiano fare altrettanto, senza essere fermati, fra l’altro, dai veti di coloro che hanno tanto, troppo finanziato le loro campagne elettorali.
Anche qui, nel freno imposto alle spese elettorali e ai condizionamenti che possono portare con sé, Europa docet.
Ma quali che siano le misure che verranno adottate per il bilancio, rimarrà comunque il problema della crescita, che esse, almeno nel breve periodo, potranno solo aggravare. E qui viene la lezione numero tre. Abbiamo già preso a condividere con gli americani, e potremmo condividere ancora di più nel prossimo futuro, le conseguenze negative della non crescita. Perché non provare a condividere i modi per porvi rimedio e per bilanciare l’austerità fiscale dalla quale saremo accomunati con azioni congiunte per rinvigorire le nostre economie?
Già oggi le nostre economie sono profondamente intrecciate, grazie al lavoro di tante imprese, europee e americane, che distendono le loro attività su entrambe le sponde dell’Atlantico. Sono un’ottima piattaforma di collaborazione, ma non bastano evidentemente loro ad impostare e promuovere vere e proprie politiche di sviluppo, che si risolvano in benefici comuni. Qui le strade da battere possono essere diverse e c’è chi sarebbe in grado di indicarle molto meglio di me. Io riesco a pensare alla rivoluzione in atto nelle fonti energetiche, con gli Stati Uniti che diverranno fra poco esportatori del loro shale gas (il gas da rocce scistose, che l’Europa ha rinunciato a produrre per ragioni ambientali) e noi europei che abbiamo interesse a ridurre la dipendenza dai gasdotti russi e nord africani a cui siamo attaccati. Penso inoltre all’altra e più grande rivoluzione, quella tecnologica in cui stiamo entrando, che promette una nuova ondata di beni e servizi per migliorare e rendere meno costose le nostre vite. In essa gli americani sono, ancora una volta, più avanti di noi. Ma potremmo collaborare per mettere l’Europa al loro passo, con sicuri benefici comuni.
Penso infine all’idea a lungo carezzata, ma mai realizzata, di una autentica free trade area transatlantica, che ha certo i suoi rischi in tempi di imprese e di posti di lavoro marginali difesi comprensibilmente con i denti, ma che alla lunga può soltanto allargare i polmoni alle nostre produzioni migliori.
Obama sembra aver ripreso a pensare in grande. Facciamolo anche noi e spingiamolo così a continuare a farlo.
Il Sole 24 Ore 12.11.12