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“Il Pd supera il 30% Grillo davanti al Pdl. Positivo l’effetto primarie”, di Carlo Buttaroni

Il clima delle primarie fa bene al Pd: nelle intenzioni di voto il Partito democratico supera il 30%. Al secondo posto il Movimento 5 Stelle che con il 15% supera il Pdl. Intanto alla vigilia di una settimana decisiva per la legge elettorale Casini smorza i toni delle polemiche e apre alle richieste del leader democratico. Sul fronte del Pdl il segretario Alfano chiude all’ipotesi di un Monti-bis e alle avances di Fini: «La sua storia con il centrodestra è finita».
Il Partito democratico è ormai l’unica grande forza politica in campo. Non solo perché raccoglie quasi un terzo dei consensi ma perché tra il partito di Bersani e gli altri, compreso il movimento di Grillo, c’è una distanza abissale. Le primarie hanno contribuito a restituire al Pd un’identità forte e riconoscibile. Il processo di selezione del leader è una competizione vera, aspra, ma iscritta indubbiamente nel campo riformista. E questo l’opinione pubblica lo avverte. La forza dei democratici non deriva più dalla debolezza degli altri partiti o dall’essere la sponda opposta al berlusconismo, ma da posizioni non equivoche sul futuro del Paese e da idee che se ancora non sono un programma politico, sembrano somigliargli molto.
Anche il Movimento 5 Stelle aumenta i consensi, ma su un terreno diverso: si nutre della crisi dei partiti e si colloca all’interno della frattura del sistema politico. Una frattura che, invece, il Pd cerca di colmare, offrendo un’alternativa sia al governo dei tecnici che alla deriva astensionista.
Un astensionismo mai così alto. Nelle elezioni del ’48 i voti che ottennero i partiti rappresentavano il 90,8% degli aventi diritto, nel ’53 arrivarono al 91,1%. Dopo il terremoto di Tangentopoli i voti validi scesero all’80,5%, calando ulteriormente due anni dopo, per arrivare al minimo storico delle politiche 2001 con il 75,4%.
LA RICHIESTA DI NAPOLITANO
Se si votasse oggi la partecipazione rischierebbe di fermarsi sotto il 50%. Una soglia da codice rosso, come hanno dimostrato le recenti elezioni siciliane, dove solo il 47% degli elettori si è recato alle urne. Servirebbe un’iniezione di buona politica e di senso di responsabilità. Ciò che chiede, da mesi, il presidente Napolitano. Purtroppo senza risultati apprezzabili, come dimostra la vicenda della riforma elettorale, impantanata tra le sabbie mobili della convenienza dei singoli partiti. Il dibattito intorno alla soglia minima per far scattare il premio di governabilità che porterebbe il partito o la coalizione vincente a ottenere almeno il 55% dei seggi è paradossale. Il principio che per governare il Paese occorre una maggioranza qualificata di voti è giusto. E sicuramente andava definito quando fu varato il Porcellum. Ma stabilire oggi, a pochi mesi dalle elezioni, una soglia così alta, come propongono Udc e Pdl, rischia di impedire al sistema di adeguarsi in tempo con un’offerta politica. E soprattutto significa non aver capito la crisi in cui è precipitato il Paese.
Nelle prime elezioni del dopoguerra più di sette elettori su dieci votarono per le due principali formazioni. Nel ’94, dopo il crollo dei partiti successivo alle inchieste di Mani pulite, il tasso di polarizzazione scese a tre elettori su dieci. La crisi non solo portò a una riduzione della partecipazione elettorale ma provocò anche una proliferazione di liste (nel ’94 furono 67, più del doppio rispetto al ’92). Nonostante questo, e in forza del sistema maggioritario, Berlusconi divenne presidente del Consiglio, non perché conquistò la grande maggioranza di voti ma perché ottenne la maggioranza dei seggi. Se ci fosse stata una soglia minima di consensi per accedere al governo, il Paese sarebbe rimasto incagliato nella crisi dei partiti della prima Repubblica. Dal ’94 in poi il sistema ha ridefinito le sue coordinate polarizzandosi intorno ai principali partiti dei due poli: nel 2001 Ds e Fi ottengono il 34,7% dei consensi, nel 2006 il 44,5%, nel 2008 il Pd e il Pdl il 54,7%.
Se l’obiettivo del Pdl e dell’Udc, come ha denunciato Bersani, è quello di impedire al centro-sinistra di andare al governo, puntando su un prolungamento dell’esperienza tecnica, è gravissimo per due ragioni. La prima è di principio giuridico: la legge elettorale non deve essere uno strumento di una parte contro un’altra e non deve predeterminare maggioranze politiche. Introdurre soltanto una soglia di governabilità al 42,5% (senza accedere al cosiddetto lodo d’Alimonte, che prevede un premio del 10% al partito più votato) significa, oggi, impedire a qualsiasi partito o coalizione di vincere le elezioni, creando di fatto le condizioni per una sola via d’uscita: un governo tecnico sostenuto dalla stessa maggioranza che appoggia Monti.
La seconda ragione è politica e riguarda l’uscita dell’Italia dalla crisi. Il Paese ha bisogno di scelte tragiche di ampio respiro, che traccino un modello di sviluppo economico e sociale. Scelte che hanno bisogno di un alto tasso di condivisione da parte dei cittadini. Il merito di Monti è stato quello di dare risposte autorevoli e immediate dopo la fine del governo Berlusconi. Ma non poteva e non può fare altro. Un Monti-bis, dopo le elezioni, sarebbe incomprensibile, tanto più se figlio di una riforma elettorale che ha come punto di ricaduta l’impossibilità di esprimere un governo nel pieno dei suoi presupposti politici.
Se il governo in carica rappresenta per alcuni un’opzione politica, allora la questione è diversa. Questi sostenitori del Monti-bis dovrebbero presentarsi agli elettori in modo chiaro, con Mario Monti (o un altro ministro) candidato premier e con un programma ispirato all’agenda dell’attuale esecutivo. Puntare, invece, sui rimbalzi tecnici di una legge elettorale pensata per non dare alcun risultato, significa sottrarre quote di sovranità ai cittadini e dare meno forza al prossimo governo, qualunque esso sia. Il contrario di ciò di cui ha bisogno l’Italia per uscire dalla crisi.
LA RESPONSABILITÀ POLITICA
D’altronde persino i mercati richiedono governi politici, forti del sostegno dei cittadini. In Francia il presidente Hollande ha vinto con un programma che, secondo le tesi economiche prevalenti nel nostro Paese, avrebbe dovuto far crollare le borse e alzare i tassi d’interesse. Non solo ciò non è avvenuto, ma la distanza tra gli indicatori economici francesi e quelli italiani si è ampliata. Segno che l’economia si governa con la politica, non il contrario.
In questo panorama il Pd appare un gigante. È in campo con idee che, piacciano o no, rappresentano un’alternativa al governo dei tecnici e alla Grillo-ribellione, mentre il deficit di leadership e di politica del centrodestra rischia di diventare una frana. Cercare espedienti tecnici, come si sta cercando di fare, per rendere inefficace il processo elettorale rappresenta un pericoloso smottamento democratico, che allontana l’Italia da quegli standard europei cui il Paese aspira.
Bisogna varare presto, come chiede Napolitano, una legge elettorale che consenta agli elettori di scegliere un governo politico, dando un mandato pieno. E non perché altrimenti il partito di Grillo rischia di arrivare all’80%, come teme il presidente del Senato Schifani, ma perché il Paese ha bisogno di risolvere la crisi politica prima di poter uscire dalla crisi economica, con un governo politico che abbia la sua forza nella legittimazione popolare.
L’Unità 12.11.12