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“Le lacrime del Presidente”, di Vittorio Zucconi

Piangi, Presidente, piangi pure. Il sentiero delle lacrime che bagnano ormai la vita pubblica nelle democrazie porta alla mano che Barack Obama usa per asciugarsi gli occhi e dare l’addio alla propria vita di candidato.
Ha pianto per gratitudine, per orgoglio, per gioia per la caduta di tensione e per la stanchezza mortale davanti ai militanti della “Obama Campaign”, i giovani che a Chicago gli hanno regalato in cambio di pizze fredde e cisterne di caffè micidiale, mesi della propria vita per organizzare la sua vittoria sul terreno, pronti a dare il cuore. A volte, letteralmente, come quell’Alex Okrent che morì di infarto a 29 anni proprio lì dove Obama ha pianto, cinque mesi or sono, senza poter vedere il risultato del proprio sacrificio.
Quando il vecchio-nuovo presidente degli Stati Uniti, successore di sé stesso, aveva cominciato a parlare davanti a supporter anche più esausti di lui, era sembrato che la sua voce baritonale scesa di un’ottava fosse il prodotto della fatica, delle notti bianche, dei discorsi urlati fino alle ultime ore. «Il cerchio del mio lavoro e della vostra fatica si è chiuso» aveva esordito, tradendo il senso di finalità, la vertigine di qualcosa che non tornerà mai più nella sua vita, l’agonia e l’ebbrezza della competizione elettorale.
«Il lavoro che voi avete fatto per me è stato la prova che quello che ho cercato di fare per l’America è importante e sono orgoglioso di voi… sono orgoglioso di voi». E qui la montata delle lacrime è arrivata agli occhi, gli ha chiuso la gola, gli ha reso quel suo viso già sottile e smagrito dalla doppia fatica di governare una nazione enorme e di condurre una campagna elettorale feroce, ancora più piccolo. Era tornato per un istante “Barry”, il liceale che aveva scelto quel nomignolo per nascondere il “Barack” ai compagni di classe.
Non c’era neppure alcun sospetto che quelle fossero lacrime elettorali, perché l’avvocato Barack Hussein Obama non dovrà mai più chiedere voti a nessuno, se non ai deputati e senatori dei due partiti, nemici, amici, falsi amici, che lo attendono alla mezzanotte di fuoco del 31 dicembre prossimo, nell’agguato del “precipizio fiscale” che i tagli alla spesa pubblica imporranno per legge e al quale ha dedicato il primo discorso pubblico, ieri sera.
Non avrebbe voluto cedere al magone e alle lacrime, e lo si è visto quando con un gesto infastidito ha abbandonato di scatto il podio delle lacrime per allontanarsi in fretta, con la solita andatura da compasso e rifugiarsi nel gruppo di portaborse e agenti del Servizio segreto che lo attendevano per passargli il fazzoletto. Come se avesse improvvisamente ricordato che lui non era più il militante da strada che proprio nei ghetti di Chicago si era fatto le prime ossa, che in quella città spietata e non proprio limpidissima aveva subito la prima e unica batosta elettorale appena 12 anni or sono, dove aveva conosciuto Michelle, dove erano nate le sue bambine. E si fosse ricordato di essere il Presidente degli Stati Uniti, il Commander in Chief delle armate, il papa-re di quella religione laica chiamata America.
Non che ci fosse alcunché di imbarazzante o di vergognoso nelle lacrime che gli hanno arrossato e strizzato gli occhi piccoli, scorrendogli sul volto e nel naso come a un bambino con il moccio. Piangere, in pubblico e in privato, non è più anatema, come per i Kennedy, ai quali la matriarca Rose insegnava che «un Kennedy non piange», senza neppur sapere quante occasioni di pianto il destino avrebbe a loro riservato, o, nel loro piccolo, gli Agnelli, ai quali la bonne ripeteva la stessa istruzione. Ormai è quasi un must, un dovere, per mostrare i propri feeling, il sentimenti.
Ha pianto Jim Boehner, il presidente, lo speaker, della Camera ultra-repubblicana eletta nel 2010 e dunque «Macho in Chief», capobranco alfa del Tea Party, ripensando alle proprie origini di umile barista. Pianse Rick Santorum, durante le primarie, ricordando la sua ultima nata afflitta da gravi difetti genetici. Singhiozzava caldissime lacrime Bob Dole, l’avversario di Clinton nel 1996, quando i sondaggi gli dissero che l’elettorato femminile apprezzava l’espressione dei sentimento. Lacrimava in tv, forse più di rabbia che di commozione, Hillary Clinton, dopo la batosta subita da Obama nel 2008 in Iowa. E già proprio Obama aveva pianto rammentando la nonna materna che lo aveva allevato e che morì alla vigilia della elezione 2008.
Lontanissimo è quel 1976 quando Ed Muskie, concorrente alla candidatura democratica nel gelo nevoso del New Hampshire, inghiottì i singulti e gli obiettivi immortalarono gocce che gli colavano sul viso, considerate lacrime dagli avversari o fiocchi di neve disciolti. Nel dubbio sulla natura del liquido, Muskie fu scartato, come troppo femminuccia. «Troverete un buon lavoro, ne sono certo, perché siete formidabili. Lo so, perché sono stato anche io uno di voi», ha salutato i propri volontari Obama, asciugate la lacrime e chiusa la parentesi di ricerca del tempo perduto. E se è improbabile che gli eroi delle pizze gelide e del caffè horribilis possano diventare Presidenti degli Stati Uniti, potranno dire ai propri figli e nipoti di avere visto e raccolto le lacrime di Obama. Le prossime, quelle che dovrà piangere per non precipitare insieme con la nazione giù dal burrone della guerra fiscale fra lui e i “boia chi molla” repubblicani, le piangerà in privato, sulle ampie spalle di Michelle.
La Repubblica 10.11.12