Credo che nessuno si lasci ingannare dalle centinaia di migliaia di domande per la partecipazione al concorso per il reclutamento degli insegnanti per trarne la conclusione che fra i nostri giovani sia diffuso un forte orientamento nei confronti dell’impegno nella scuola. Sarebbe una conclusione ben strana se si considera che quella degli insegnanti è una professione mal pagata, che si svolge in condizioni spesso penose, che sono incerti gli intenti per i quali si lavora e che, per tutto ciò che non soddisfa nell’educazione di bambini e ragazzi, ci si deve abituare a subire atteggiamenti critici che sarebbe meglio rivolgere nei confronti di chi, avendo la possibilità di assumere decisioni, evita di farlo o, al più, solleva cortine fumogene proponendo alle scuole innovazioni di facciata. Ci si deve chiedere, quindi, per quale ragione una tale folla di candidati si contenda il numero modesto di cattedre a disposizione (che poi non si sa bene neanche quante siano realmente, perché è probabile che una frazione più o meno consistente dei posti a disposizione sarà utilizzata per il cambiamento dello stato giuridico di personale già in servizio). La prima ragione, e la più semplice, è che coi livelli di disoccupazione raggiunti nelle fasce d’età giovanili quella che si sta aprendo nelle scuole appaia come una fessura nella quale si può ancora sperare di inserirsi. Questa spiegazione sarebbe anche più convincente se gli aspiranti all’insegnamento fossero distribuiti fra i diversi settori di competenza. Invece, non è così. La crisi sta coprendo un vuoto di personale nei settori matematico-scientifici che non tarderà a manifestarsi di nuovo non appena appaiano segnali di ripresa del sistema economico. Purtroppo, la ripresa non aiuterà in alcun modo a migliorare il quadro dell’occupazione nei settori in cui l’offerta è più consistente, ossia in quelli umanistici.
Se, invece di continuare nella politica delle toppe (destinate, come si sa, ad accrescere gli strappi in un tessuto così mal ridotto com’è il nostro sistema scolastico) sarebbe possibile comporre in un’interpretazione coerente i troppi fattori di disagio che colpiscono sia gli insegnanti in servizio, sia quelli che vorrebbero intraprendere tale professione. Per cominciare, c’è bisogno di rinnovare in misura ben più radicale, nell’ambito di un ridisegno delle condizioni di funzionamento delle scuola, l’organico del personale. L’età media degli insegnanti è troppo elevata. Sia chiaro: non si tratta di fare operazioni di ricambio generazionale forzato. Gli insegnanti con lunga esperienza di servizio sono una risorsa. Non ci sarebbe nulla da eccepire, e anzi sarebbe un vantaggio, se insegnanti con maggiore esperienza potessero interagire con insegnanti da poco inseriti negli organici o che sono ancora ai primi passi. In secondo luogo, per quel che riguarda il profilo delle competenze professionali non si può continuare a far finta che nelle nostre università esistano risorse conoscitive e tecniche che è sufficiente distribuire per assicurare agli aspiranti all’insegnamento la competenza professionale di cui hanno bisogno. È vero, invece, che tutti i limiti che si riscontrano nelle pratiche educative delle scuole potrebbero, in maggior misura, essere rilevati nelle università. In breve, queste ultime dovrebbero insegnare ad altri ciò che hanno dimostrato, ad abundantiam, di non saper fare in proprio. Terzo punto, prima ancora di pensare a questioni di profilo professionale, c’è bisogno di accrescere i repertori culturali disponibili fra i candidati all’insegnamento. Se invece di pensare a ridicoli corsi in inglese per improbabili studenti, ci si impegnasse in un progetto serio di ricostruzione delle competenze linguistiche, della capacità di scrivere, di leggere pubblicamente, di sviluppare l’argomentazione, di approfondire interpretazioni e significati, di collegare fra loro i diversi campi della cultura non avremmo ancora gli insegnanti che tutti speriamo, ma saremmo sulla buona strada.
Infine (ma solo perché si tratta di un problema contingente, almeno in apparenza), bisognerebbe evitare che quello del concorso per gli insegnanti diventasse solo un’occasione di arricchimento per chi è fin troppo interessato (persone e organizzazioni) a trar profitto dall’ansia e dal disagio dei candidati per offrire – ovviamente a caro prezzo – la competenza, in genere supposta e autoaccreditata, di cui dispongono. Non sarebbe un segnale di moralizzazione se, almeno in questo caso e per far fronte all’emergenza in cui ci si trova, la tecnologia fosse usata in modo meno ideologico di quanto finora è avvenuto, e si offrisse gratuitamente ai candidati al concorso una gamma di opportunità per ridefinire il loro profilo culturale nelle direzioni che prima si indicavano?
L’Unità 09.11.12
Pubblicato il 9 Novembre 2012