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“Il concorso della scuola, lotteria futuro”, di Walter Passerini

Sembra una lotteria. E in tempi di crisi uno le prova tutte per il lavoro, compreso il gioco d’azzardo, che sta diventando la maggior in dustria nazio nale. Il concorsone, stando alle cifre, è davvero un mostro mai visto, oltre ogni previsione. Alla prova, che scatterà nelle prossime settimane, ci sono 28 aspiranti per ciascun posto. Sui 321 mila candidati, in 215 mila non hanno una grande esperienza di insegnamento nella scuola e non vengono dalle graduatorie in esaurimento. Otto su dieci sono donne. Hanno in media 39 anni, ma ci sono quasi 3 mila over 55. Del resto, per iscriversi era necessario avere una laurea da almeno dieci anni. Giovani esclusi, quindi. Forse per abbassare l’età media si sarebbero dovuti lasciare entrare i neolaureati senza distinzione di età. Tanto, un terno al lotto rimane.
Nessuna precedenza per i 220 mila precari, solo la metà si sono iscritti. Il pieno lo fa il Sud (165 mila domande), in testa la Campania (57 mila). Ci vuole rispetto per i seguaci di Pierre De Coubertin: l’importante non è vincere ma partecipare. Tra gli ordini prescelti c’è una certa omogeneità, con una leggera preferenza per le superiori (27%). Che cosa spinga un esercito della speranza di queste proporzioni a gettarsi nella mischia per ottenere un posto a scuola non è dato sapere, ma possiamo immaginare: forse più della motivazione può la disoccupazione. Eppure, l’insegnamento, una delle professioni più belle e meno pagate del mondo, esige vocazione. Ci sono degli eroi nelle scuole, che per meno di 1.500 euro al mese ci mettono l’anima e a volte anche soldi propri: per fotocopie, materiali didattici, anche carta igienica o acqua ossigenata.
La differenza è tra chi «fa» o «è» insegnante. L’identità professionale deve essere forte per nuotare controcorrente, contro la fatica, i bassi stipendi, l’autoformazione, scansando i genitori sindacalisti accaniti dei propri figli e sfidando il disprezzo per una figura sociale che ha goduto di maggior prestigio. Ci basterebbe che intorno al concorsone si sviluppasse una discussione sulle finalità della nostra scuola. Abbiamo una scuola dell’infanzia e una scuola primaria che tutti ci invidiano. E’ dalle medie inferiori che appare l’anello debole, che crea dispersione e che non aiuta alla successiva selezione. Così tanti scelgono le superiori a 13 anni senza saper bene che fare. E quasi lo stesso succede per il dopo superiori. Non scarichiamo le colpe sugli insegnanti, né corresponsabilizziamo le famiglie. E’ contro chi disprezza lo studio come ascensore sociale che dovremmo gridare. L’educazione primaria e secondaria non è così male. Certo dovremmo migliorare il mix tra studi tecnici e umanistici, tra licei e istituti professionali.
C’è un deficit di orientamento che condanna alla dispersione e allo spreco di risorse e che non fa amare la scuola. Ma il vero anello mancante su cui dovremmo discutere e decidere è l’introduzione con pari dignità della cosiddetta educazione terziaria, che non può essere solo universitaria. Francia, Germania, Regno Unito e Svizzera hanno da anni un’educazione post diploma di livello elevato e professionale. Noi ci balocchiamo ancora con deboli sperimentazioni. Allora, se vogliamo investire su un maggior dialogo tra scuola e mondo del lavoro è qui che dobbiamo puntare. E’ da qui che dovranno uscire quei tecnici che determinano una domanda inevasa di oltre 100 mila figure professionali. Intanto anche il concorsone un po’ di lavoro lo sta già creando: per i commissari d’esame, per la formazione dei formatori, per informatici ed esperti di dati e archiviazione, per avvocati esperti di ricorsi al Tar. E per stilare le domande dei quiz e dei test, almeno questa volta, confidiamo, a prova di errore.
La Stampa 09.11.12