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"Quando in azienda il potere è femmina", di Chiara Saraceno

La “quota blu” quasi monopolistica per le posizioni di vertice in economia, come e forse più che in politica, continua a resistere, rendendo insopportabile il fatto che invece si continui a parlarne come un problema di quote rosa. Le donne sono poco presenti non solo nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa — quelle cui è rivolta la nuova normativa che impone un riequilibrio. La loro presenza è rarefatta anche ai livelli precedenti, man mano che, appunto, ci si avvicina ai vertici. Non dipende solo dal fatto che ci sono meno donne che uomini nel mercato del lavoro. Anzi, stante che in Italia la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è particolarmente squilibrata a favore delle più istruite, ci si potrebbe aspettare che queste non siano sfavorite nella competizione per le posizioni di vertice. L’istruzione se favorisce l’ingresso e la permanenza nel mercato del lavoro, non sembra invece valere per le donne nella stessa misura che per gli uomini per quanto riguarda l’accesso alle carriere. Soprattutto nel settore privato, rimangono schiacciate ai livelli medio- bassi delle carriere. Ed ogni passaggio in avanti, se avviene, richiede loro il doppio del tempo dei loro colleghi, pur a parità di istruzione e esperienza professionale. È un altro dei tanti spread negativi che contraddistinguono l’Italia dalla maggior parte dei paesi sviluppati (e non solo) che meriterebbero altrettanta attenzione di quello rispetto ai Bund tedeschi. Sullo sfondo di questo quadro deprimente, il piccolo aumento nella percentuale di dirigenti donne — rilevato da Manageritalia su ricerche di diversi istituti — in questi anni di crisi è un segnale da leggere con attenzione, specie a fronte del fatto che i dirigenti nel complesso, di fatto i maschi, hanno perso posti di lavoro, ancorché in misura molto minore a quanto è avvenuto a operai e impiegati. Non credo che si tratti di un improvviso segno di conversione da parte dei capi azienda che finalmente hanno iniziato a metabolizzare quanto diverse ricerche internazionali vanno documentando, ovvero che le donne dirigenti sono più affidabili, più disponibili a imparare e mettersi in discussione, a lavorare in squadra e così via. Certo, forse cominciano a “vedere” le molte donne che lavorano bene e con competenza nelle loro aziende e a promuoverne qualcuna ogni tanto, con cautela.
Credo tuttavia che la maggior tenuta, e il miglioramento, della piccola minoranza femminile derivi innanzitutto dalla diversità dei settori in cui sono occupati prevalentemente uomini e donne e da come sono stati colpiti dalla crisi. È noto che questa ha colpito prevalentemente l’industria manifatturiera, che vede una prevalenza di uomini a tutti i livelli, divenendo quasi monopolistica ai vertici. Non sorprende quindi che anche qualche dirigente uomo sia stato colpito, o che non ci sia stato turnover in caso di pensionamenti. Il settore privato dei servizi, incluso il terzo settore, ha tenuto meglio. Il terzo settore, in particolare, è anche uno dei pochi che ha creato nuova occupazione, benché ultimamente stia entrando in affanno anch’esso. Si tratta appunto dei settori in cui sono anche più presenti dirigenti (ed anche imprenditrici) donne. E dove prevalgono aziende di piccole dimensioni. Questo può anche spiegare in parte il dato apparentemente sorprendente, ma non nuovo, della maggiore incidenza — in termini proporzionali, non in numeri assoluti — di donne dirigenti in alcune regioni meridionali, poco industrializzate e a bassa occupazione, rispetto a quelle del Nord delle grandi, ma anche medie e piccole imprese industriali, dove pure le donne partecipano al mercato del lavoro e sono occupate in misura molto maggiore.
Rallegriamoci dunque, ma con molta moderazione.
La Repubblica 07.11.12
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“Se in azienda comandano le donne”, di Cinzia Sasso
Più intraprendenti, oneste, migliori nel motivare i dipendenti. In Italia aumentano le dirigenti. Una scalata che lascia indietro i colleghi. La signora con i pantaloni a sigaretta, un eccentrico cappottino a pois e un paio di stringate nere che sembrano proprio le scarpe di un uomo, saluta con un sorriso radioso e poi sparisce nell’ascensore del palazzo di Renzo Piano, là dove Price Waterhouse Coopers ha la sua sede a Milano. Pigia il pulsante del terzo piano ed eccola nel suo ufficio da dirigente. Si chiama Chiara Carotenuto, ha 35 anni, una laurea in Economia, un passato da assistente all’università e soprattutto tre anni di Australia alle spalle. Se serve un ritratto in carne ed ossa di una che ce l’ha fatta, eccolo. Con un segno particolare che dà speranza a un Paese che stima nell’ingresso e nelle scalata delle donne al lavoro un aumento del 7% del Pil: quello, appunto, di essere una donna. E se ci saremmo aspettati che di fronte a un calo dell’occupazione le prime a perdere il posto fossero le donne, c’è da ricredersi. Dopo anni di dibattiti a ogni livello, di studi e ricerche, di lamentazioni, anche, sulla pervicace esclusione delle donne dal mercato del lavoro e soprattutto dalle stanze dei bottoni, uno studio di Manageritalia rovescia i luoghi comuni.
Perché quello che è accaduto, da quando la più devastante crisi economica ha investito l’Europa, è che mentre i dirigenti di sesso maschile, cacciati o marginalizzati, sono diminuiti del 3,3 per cento, le donne dirigenti sono salite del 15,4 per cento. Dal 2009 al 2011, il mercato del lavoro ha espulso l’1 per cento dei dirigenti; ma quello che fa impressione è il bilanciamento tra i generi. Fuori gli uomini e dentro le donne.
Carotenuto lavorava all’Australian Auditing & Assurance Standard Board, in pratica la
Consob australiana, e quando ha deciso che voleva tornare in Italia ha spedito un po’ di
curricula ed è approdata in viale Monterosa, alla multinazionale della consulenza, come quadro. Aveva 29 anni e adesso, da due, è diventata un «capo». Ricorda, come fossero figurine sbiadite, i suoi vecchi compagni di studi, molti alla prese con la crisi drammatica che ha tagliato posti di lavoro e speranze: «Sono qui — dice — perché ho avuto il coraggio di rischiare mentre molti di quelli che si sono laureati con me si sono fermati nel porto sicuro di un’azienda italiana. Sono più avanti di loro perché ho avuto più coraggio: prima a partire, e poi a tornare». Ma non è solo Milano, la nostra
America. Le sorprese si annidano anche nei particolari: la regione italiana che dato l’accelerata più significativa è la Calabria, seguita dal Molise, dal Lazio, dalle Valle d’Aosta e dalla Lombardia. Fanalini di coda il Veneto, la Sardegna, la Campania e l’Abruzzo.
Marisa Montegiove, battagliera coordinatrice del gruppo donne di Manageritalia, la spiega così: «Dalle parte delle donne c’è innanzitutto l’anagrafe: tra i lavoratori che hanno raggiunto l’età della pensione, la maggioranza è composta da uomini. Chi è entrato e comincia a fare carriera, invece, è un gruppo più misto, segno di un cambio generazione radicale, prova che le donne si sono liberate dal fardello
esclusivo della famiglia». Ma c’è altro: «I clienti sono donne per oltre il 50 e le aziende che devono dialogare con i consumatori pensano che sia più facile lo scambio tra pari». Quello che dicevano, insomma, Avivah Wittenberg-Cox e Alison Maitland nel loro Rivoluzione Womenomics. Negli ultimi due anni sono stati molti gli sviluppi di quella mai smentita — e però anche mai messa in pratica — teoria. Uno, ad esempio, è la nascita di associazioni che lavorano proprio per aiutare le donne, e con loro il paese, a prendere il posto che spetta loro nelle imprese. Valore D, è una di queste; e oggi, a Napoli, scelta come simbolo di due battaglie insieme, lancerà la sua parola d’ordine
con un convegno che si intitola proprio «Il sud riparte dalle donne».
Nata nel 2009, l’anno che adesso le statistiche ci descrivono come quello della svolta, Valore D associa 62 aziende che hanno deciso di scommettere sul talento femminile. Perché, come dice Alessandra Perrazzelli che ne è la presidente, «l’innovazione è molto spesso femminile e la crescita non può che guardare in quella direzione». «Le donne dirigenti aumentano — spiega — perché hanno una visione imprenditoriale legata ai bisogni della società e dunque riescono a proporsi nei settori che sono diventati trainanti. Gli uomini, invece, sono rimasti legati alle attività e al modo di la-
vorare tradizionali». A quel mondo fatto di sicurezze, insomma, che la crisi ha spazzato via. Settori di attività, ma non solo: conta anche lo stile del leader: «Il «capo» è tramontato; nel mondo di oggi per macinare affari c’è bisogno di un leader che non deve tanto comandare quanto saper fare squadra e motivare i dipendenti». Che la disparità tra i due sessi nel lavoro e soprattutto ai posti di vertice sia ormai una nota stonata, emerge da un’indagine qualitativa fatta da due studiosi americani, Jack Zenger e Joseph Folkman, che intervistando trentamila lavoratori dipendenti hanno stilato la lista delle sedici caratteristiche più apprezzate della leadership moderna. E il risultato è stupefacente: una sola — quella di sviluppare una visione strategica — viene riconosciuta come prevalente nei maschi; tre vedono uomini e donne alla pari e dodici — dal prendere iniziative al migliorare se stessi, dal raggiungere i risultati prefissi allo stabilire obiettivi flessibili — segnalano le donne come vincenti.
Non è che la ventata di ottimismo salutata da Manageritalia con un titolo esagerato — Donne ai vertici, la rincorsa è inarrestabile — significhi che non c’è più niente da fare e che il profondo gap tra maschi e femmine sia superato, se è vero che comunque, nei confronti del resto d’Europa, l’Italia rimane in una posizione di coda. Perché se qui oggi le donne che dirigono sono il 13,8 per cento, la media europea è del 33; in Lettonia (primo paese) sono il 44,6; in Francia il 37, 4; nel Regno Unito il 34,9 e giù fino alla Grecia che comunque ci supera con un 14,9. Incommensurabilmente più brave dei
ragazzi all’università, le laureate (nella fascia tra i 15 e i 64 anni) superano i laureati del 26 per cento, che salgono a un più 56 per cento tra chi ha tra i 25 e i 29 anni. Il passaggio dagli studi al lavoro, resta perciò, viste le performance scolastiche, problematico. E forse, ancora, è uno svantaggio — il fatto di avere retribuzioni più basse — a trasformarsi in questi difficili anni in una spinta per le donne. Per questo sorride Claudia Scarcella, dirigente di ISS Facility Service, società di servizi con la testa a Copenhagen, 500 mila dipendenti nel mondo e 1.500 in Italia. Ci prendono — scherza — perché costiamo di meno».
Ma oltre ai numeri, c’è un’altra questione che l’ascesa delle donne al comando mette con urgenza sul piatto: la qualità del lavoro, il tempo da passare in ufficio, gli intrecci con la vita privata. Perché non è facile fare come Fiorella Cavaliere, 37 anni, laurea in Giurisprudenza alla Federico II di Napoli, esame da avvocato dopo un anno da giuslavorista, master alla Stoà di Ercolano, la Sda Bocconi del Sud, ora capo delle risorse umane di Energas spa. Che viaggia su un tacco dodici, va due volte la settimana dal parrucchiere, gestisce uno stuolo di trecento dipendenti e dice orgogliosamente di sé: «Sono una donna con le tre «emme»: sono una manager, una mamma di due gemelli e una moglie». Complimenti. Deve essere vero proprio quello che pensa: «I miei risultati li intendo come il risultato del lavoro di tutti. Lavoro in un mondo di maschi e penso ogni giorno che non c’è storia: noi donne siamo più brave».
La Repubblica 07.11.12