Come si dice, il mondo è vario. Di fronte all’estesa condanna della meschina ritorsione e provocazione compiute dall’amministratore della Fiat Sergio Marchionne (per di più illegittima), c’è qualcuno che ha levato la voce in suo favore. In particolare ho ascoltato e letto due argomenti: il primo più ingenuo, il secondo più datato. Il primo dice: c’è stato un referendum; se voi eravate contrari alla proposta di Marchionne, com’è che adesso siete disposti ad accettarla pur di rientrare in fabbrica, magari anche a danno di quelli che erano favorevoli? In questo modo il referendum viene inteso come se fosse una specie di conta tra i buoni e i cattivi: chi è a favore è dentro, chi è contrario è fuori. Sarebbe come dire che se i sindacati, proclamando uno sciopero, ottengono ciò che chiedevano, coloro che non hanno voluto scioperare saranno esclusi dai vantaggi acquisiti: una vera bestialità. Il secondo argomento si dà arie più raffinate. Parte dalla considerazione che i tempi son cambiati ecc. ecc., per finire a difendere, niente meno, che i diritti della proprietà privata: diritti che i giudici, con indebita intrusione, avrebbero violato, cadendo in un delitto di lesa proprietà. Peccato che questo modo di ragionare sia lui molto antiquato e frusto, perché dimentica tutto ciò che, quanto meno, è accaduto con la famosa crisi del ’29 e i provvedimenti del New Deal. Da allora la questione verte, da un lato, sulla sostanza sociale del lavoro, e dall’altro sulla salvaguardia dell’iniziativa privata, una volta che le garanzie sociali siano state ottemperate. Il che significa che la partita della produzione e del lavoro si gioca in quattro, dove nessuno ne detiene il monopolio: l’impresa, i lavoratori con i loro sindacati, lo Stato e infine il potere giudiziario, che ha il dovere di controllare se le norme e le leggi sono state rispettate. Resta il fatto, al di là delle discussioni occasionali e delle iniziative peregrine, della condizione dei lavoratori della Fiat, costretti a un atto di fede nelle promesse di Marchionne: non ci sono alternative, dicono molti di loro; se la Fiat chiude, a Pomigliano non rimane nulla, resta solo il deserto. Sanno benissimo che, in qualunque momento, Marchionne può doversi rimangiare le promesse con l’argomento irrefutabile che i mercati non hanno risposto. Anche gli stregoni di un tempo assicuravano di aver eseguito le danze della pioggia a puntino: peccato che gli Dei, appunto, non abbiano risposto. E così il modernissimo stile industriale rivela una mentalità primitiva, con la sua assolutizzazione e consacrazione del mercato. A Pomigliano resta il deserto, che però non c’era prima, anche se le fabbriche hanno indubbiamente arrecato molta ricchezza; la quale tuttavia potrebbe scomparire da un momento all’altro, rivelando la sua natura profondamente colonizzatrice e predatoria: sfruttare ai propri fini tutte le risorse utilizzabili che il luogo offre, devastando o semplicemente rendendo obsoleto e indesiderabile tutto il resto. Dopo di noi il diluvio. Se è così, è evidente che la protezione sociale dei lavoratori non è più sufficiente: è necessaria anche una protezione efficace dei luoghi, delle iniziative, delle tradizioni, dei bisogni non riassumibili in termini di profitto industriale e di logica di mercato. Questo dovrebbe diventare uno scopo primario della politica e dello stato. In un recente articolo su «la Repubblica» Luciano Gallino ha evocato gli «schemi di garanzia» (job guarantee): non soltanto la salvaguardia del posto di lavoro (che, se una fabbrica è passiva, prima o poi diventerà inattuabile), ma la creazione di nuovi lavori a livello locale, attraverso accordi che coinvolgano gli enti locali e le imprese, le iniziative pubbliche insieme alle private. Tutto un universo lavorativo da immaginare e da creare, o da potenziare dove già sta emergendo. Bisogna convincersi della sua necessità e della sua urgenza. Non è possibile che la politica lasci soli i lavoratori con il loro terrore del futuro, con la sensazione di essere sull’orlo di un baratro che le trattative con la Fiat non riusciranno a colmare, con la loro rabbia impotente che assurdamente li divide e lacera la loro solidarietà: il tratto più nobile, più fruttuoso, più efficiente del lavoro umano.
L’Unità 05.11.12
Pubblicato il 5 Novembre 2012