Nei giorni scorsi l’attenzione di tutti noi, com’è giusto, si è concentrata su uno dei peggiori uragani della nostra storia. Perché è nei momenti difficili che l’America dà il meglio di sé. LE DIVERGENZE che ci tormentano in tempi normali svaniscono rapidamente. Non ci sono democratici o repubblicani durante un uragano, solo americani. È così che abbiamo superato le prove più dure: insieme. Quattro anni fa eravamo invischiati in due guerre e nella peggiore crisi economica dai tempi della Grande Depressione. Insieme abbiamo reagito: la guerra in Iraq è finita, Osama bin Laden è morto e i nostri eroi stanno tornando a casa. Le nostre imprese hanno creato oltre cinque milioni di nuovi posti di lavoro negli ultimi due anni e mezzo. Il valore delle case e dei fondi pensione è in aumento, la nostra dipendenza dal petrolio estero è la più bassa da vent’anni a questa parte. E l’industria dell’auto americana ha rialzato la testa. Non abbiamo ancora raggiunto il traguardo, ma abbiamo fatto passi avanti concreti. E martedì l’America potrà scegliere fra due visioni radicalmente differenti di che cos’è che rappresenta la forza del nostro Paese.
Io sono convinto che la prosperità dell’America poggi sulla forza della nostra classe media. Non progrediamo quando una manciata di persone al vertice della scala sociale se la passa bene, mentre tutti gli altri faticano a sbarcare il lunario: progrediamo quando tutti hanno un’opportunità reale, quando tutti hanno la parte che gli spetta e quanto tutti giocano secondo le stesse regole.
La strada che propone il governatore Romney è quella che abbiamo sperimentato per otto anni dopo la fine della presidenza Clinton, una filosofia che dice che i ricchissimi possono giocare con regole completamente diverse da quelle di tutti gli altri. Nelle ultime settimane di questa campagna, il governatore Romney ha cominciato a definirsi agente del cambiamento. E una cosa gliela devo riconoscere: proporre altri 5mila miliardi di dollari di tagli delle tasse a favore soprattutto dei ricchi, 2mila miliardi di dollari di fondi per la difesa che le nostre forze armate non hanno chiesto e più potere a banche e compagnie di assicurazione è un cambiamento. Ma non è il cambiamento di cui abbiamo bisogno.
Noi sappiamo che cos’è il vero cambiamento. E non possiamo mollare ora. Il cambiamento è un’America in cui persone di ogni età abbiano le competenze e l’istruzione necessarie per ottenere un buon posto di lavoro. Abbiamo preso di petto le banche che per decenni hanno chiesto interessi esagerati sui prestiti per l’Università e abbiamo reso l’istruzione universitaria più accessibile per milioni di persone.
Il cambiamento è un’America che sia la patria della prossima generazione della produzione industriale e dell’innovazione. Io non sono il candidato che ha detto che avremmo dovuto «lasciar fallire Detroit», io sono il presidente che ha scommesso sui lavoratori americani e sull’ingegno degli americani. Ora voglio un sistema fiscale che non favorisca più le aziende che trasferiscono i loro posti di lavoro all’estero ma ricompensi le aziende che creano occupazione qui in America; un sistema fiscale che smetta di sovvenzionare i profitti delle compagnie petrolifere e cominci a sostenere la creazione di occupazione nel campo dell’energia pulita e delle tecnologie che ci consentiranno di dimezzare le importazioni di petrolio.
Il cambiamento è un’America che volta la pagina su un decennio di guerra per costruire la nazione qui in patria. Finché sarò comandante in capo daremo la caccia ai nostri nemici. Ma è tempo di usare i soldi risparmiati con la fine della guerra in Iraq e in Afghanistan per ripagare il nostro debito e ricostruire l’America: le nostre strade, i nostri ponti, le nostre scuole.
Il cambiamento è un’America in cui ridurremo il deficit tagliando le spese dove possiamo e chiedendo agli americani più ricchi di tornare a pagare le aliquote che pagavano quando Bill Clinton era presidente. Ho lavorato insieme ai repubblicani per tagliare mille dollari di spesa, e taglierò ancora di più. Lavorerò insieme a chiunque, di qualsiasi partito, per far progredire questo Paese. Ma non accetterò di eliminare le tutele sanitarie per milioni di poveri, di anziani e di disabili.
Non sono i super-ricchi ad aver bisogno di qualcuno che li difenda a Washington. Quelli che ne hanno bisogno sono gli americani di cui la sera leggo le lettere, gli uomini e le donne che incontro lungo la strada ogni giorno. I cuochi e gli inservienti che fanno gli straordinari in un albergo di Las Vegas. L’operaio di un mobilificio che cerca di riconvertirsi al settore biotech a 55 anni. L’insegnante costretta a dedicare meno tempo agli studenti perché le classi sono sovraffollate. Ogni piccolo imprenditore che cerca di espandere la sua azienda. Sono questi gli americani che hanno bisogno di qualcuno che li difenda a Washington.
Se questi americani prosperano, l’America prospera. Questo è il cambiamento di cui abbiamo bisogno adesso. È ora di finire quello che abbiamo cominciato, istruire i nostri ragazzi, formare i nostri lavoratori, creare nuovi posti di lavoro, fare in modo che chiunque siate, da dovunque veniate e in qualunque modo abbiate cominciato, questo sia il Paese dove se ci provi ce la puoi fare. L’America in cui crediamo è alla nostra portata. Ecco perché chiedo il vostro voto il prossimo martedì.
La Repubblica 03.11.12
Pubblicato il 3 Novembre 2012