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"I predatori dei libri antichi rubano mille volumi al mese", di Conchita Sannino

Pesano come carta, valgono come oro. Vengono da lontano, anche dall’Anno Mille. Ma sono diventati il business del futuro, anche se parlano lingue sepolte, il latino, il greco, il fiorentino dei dotti, anche il cinese. Pezzi richiestissimi dalle élite mondiali: perché viaggiano, da un capo all’altro del pianeta, come “titoli” senza scadenza, bottini a sei zeri che non lasciano tracce. Ssono i volumi antichi, gli oggetti del desiderio al centro di un traffico in costante ascesa, nel cuore dell’Europa. Pagine miniate, atlanti, codici, anche breviari di santi. Si rubano facilmente, se ne perdono in fretta le impronte. E i trafficanti corrono — nella quasi totalità dei casi — zero rischi. Perché quei libri non hanno bisogno di finire in un’intercapedine, non «puzzano», non destano sospetti, non portano le stimmate di capitali nascosti alle Cayman. Negli aeroporti, non fanno impazzire i cani antidroga, non rischiano la scure dell’antiriciclaggio come altre più volgari partite di giro. O refurtive.
Siamo già ad un picco: 6mila sottrazioni di volumi solo nei soli primi sei mesi del 2012. È l’annus horribilis per i bibliofili di tutto il mondo: è quello che resterà inciso come tempo di vergogna della cultura italiana, l’anno della “devastazione” della Biblioteca dei Girolamini a Napoli. Un attentato alla cultura che, a ben vedere, era quasi annunciato e nessuno ha sventato per tempo. Altre, più contenute e lente spoliazioni, vanno avanti ogni giorno. E il saccheggio della splendida seicentesca raccolta partenopea è soltanto il frutto più importante di un rosario di superficialità e indifferenze.
IL TRAFFICO
È la radiografia di un traffico internazionale. Ma perché è un business in ascesa? Il saccheggio di quei testi su cui abbiamo edificato conoscenze e civiltà letteraria è, a detta di procuratori e inquirenti che hanno maturato competenze specifiche, «inarrestabile». Nel nostro paese spariscono al ritmo di trenta furti al giorno. Oggetti rarissimi inghiottiti dal buco nero dei patrimoni d’arte violati. Minuscoli grandi tesori segnati da tariffari precisi. Manoscritti, incunabo-li, cinquecentine che magari finiscono in vendita all’asta online. E accendono l’avidità (e i commerci) dei vari “Conti Librì” del ventunesimo secolo, gli emuli di quel gentiluomo e gran ladro fiorentino, il conte Guglielmo Carucci Libri dalla Sommaja detto Librì appunto, svaligiatore seriale di biblioteche di mezza Europa che solcava il mare con i suoi bauli carichi di testi rubati. Almeno fino alla prima, clamorosa condanna a Parigi del 1850.
Oltre un secolo e mezzo dopo, una sola pagina di quei libri si può piazzare a 5mila euro, anche su un’asta web, il mercato più favorevole ai trafficanti. Un libro italiano, il breviario di due santi, è tuttora il più ricercato in tutto il mondo e vale, secondo stime ufficiali, un milione. Sarebbe compito di un timbro apposto sul colophon tradirne la provenienza furtiva, segnalare l’illecito viaggio. Ma ci sono cesellatori del crimine che hanno imparato l’arte di far scomparire quei segni. Così i fogli centenari diventano formidabile merce di scambio tra gruppi di potere, in qualche caso anche la garanzia di tangenti che saranno liquidate più tardi. Anche tra clan mafiosi.
IL CASO DEI GIROLAMINI
Il romanzo “nero” dei Girolamini ha avuto il merito di squarciare la distanza che separa il mondo reale dai templi che custodiscono le ricchezze italiane. Nel complesso monumentale, oggi sotto sequestro, circa 4mila volumi sono stati sottratti (in parte ancora dispersi per il mondo) in poco meno di dieci mesi. Artefice della devastazione è stato l’uomo che doveva proteggerla: l’ex direttore di quella Biblioteca, Massimo Marino De Caro, in carcere dal maggio scorso.
Nel cuore dell’antica Napoli, a due passi dal Duomo dove ad ogni fine estate si rinnova il miracolo di San Gennaro, nessuno è riuscito a fermare lo svuotamento sistematico di quella raccolta celebre in tutta Europa, archivio insuperato di Vico e Seneca, di Diderot e anche di Dante e Cartesio. Val la pena ricordare che il direttore De Caro fu nominato direttore dal ministro del Pdl, Giancarlo Galan, poi confermato dal successore Lorenzo Ornaghi, nonostante alcuni suoi precedenti specifici sulla compravendita di libri sospetti. «Ripartiamo dagli errori commessi: ci costituiremo parte civile al processo», ha fatto (mezza) ammenda Ornaghi. Ma per le cronache giudiziarie, è un caso di scuola: una storia in cui il direttore-trafficante incarna l’anello di congiunzione tra ladri comuni e pezzi di istituzioni. E agisce con la complicità, stando agli atti d’accusa, di intellettuali, esperti, persino del prete che reggeva il monumento, don Sandro Marsano. De Caro, incastrato dal lavoro dei pubblici ministeri Michele Fini, Ilaria Sasso del Verme e Antonella Serio coordinati dal procuratore aggiunto Gianni Melillo, una volta in cella vuota il sacco. Racconta che aveva puntato ai Girolamini proprio avendo “sperimentato” l’impunità con cui riusciva a portar via i volumi da tante altre biblioteche italiane.
«Ma io li amo, i libri», De Caro scrive persino ai giornali, si paragona al conte Librì. Poi collabora. Confessa che ha rubato «un po’ ovunque». Dalla Biblioteca Nazionale di Napoli a quella di Padova, dall’Abbazia di Montecassino all’Istituto Don Provolo di Verona. Ricostruisce un suo prezzario: 12mila euro incassati «per un testo di Aristotele », 30mila per una «Cronaca di Norimberga», 40mila il prezzo «di un volume di Keplero», stessa quotazione ha preteso per «un testo di Omero». Mentre 900mila euro li ha incassati solo come anticipo per i 400 libri dati ad una casa d’asta a Monaco, dove la Procura sta bussando da mesi, con rogatoria internazionale.
LA STAMPA INTERNAZIONALE
Logico che la storia diventi emblema della solita Italia sulle pagine internazionali: dall’International Herald Tribune al New York Times, dalla Suddeutsche Zeitung al Nouvel Observateur, che parla di una «versione tragicomica de Il Nome della rosa». Un colpo che ad Umberto Eco, in effetti, offrirebbe l’occasione di chissà quale variazione sul tema delle mute faide scatenate intorno ai libri. Di certo, ce ne sarebbe per soffermarsi su quella che proprio Eco ha chiamato in passato “biblioclastìa” di Stato, quella che porta alla distruzione dei testi «per inerzia». Non era mai accaduto che una raccolta di inestimabile valore venisse sigillata, chiusa agli studiosi, per fermarne la spoliazione. Il bottino aveva destinatari eccellenti. Come il senatore Marcello Dell’Utri, intercettato al telefono con De Caro. «Cosa c’è di buono a Napoli?», chiede il politico bibliofilo. E De Caro: «Io barattavo
due prime edizioni di Vico, se le mancano, per due inviti a pranzo… ». Dell’Utri entusiasta: «Anche tre, ti faccio». Così, nelle due librerie di via del Senato sono finiti almeno due testi di Giambattista Vico sottratti al tesoro dei Girolamini. Ma il senatore, indagato per concorso in peculato e convocato dai pm, si è avvalso della facoltà di non rispondere.
Ma quanti danni fanno, e quali rotte seguono, i “trafficanti di beni archivistici e librari”?
Il dato più aggiornato: 10mila colpi all’anno. Ma bisogna entrare nel cuore di Trastevere, a Roma, per provare a leggere dietro le cifre. Qui si pesano le informazioni sugli incunaboli d’oro, qui affilano le armi i segugi dei ladri d’élite. Sono i carabinieri del Comando Tutela patrimonio culturale, l’evoluzione di quel ristretto nucleo aperto dall’Arma nel 1969, che è stato il primo nato con il compito esclusivo di contrastare il business dell’arte violata: dalla Natività del Caravaggio finito in mano a Cosa Nostra, mistero irrisolto da 43 anni, alle chiese smontate pezzo dopo pezzo dai manovali di camorra. Oggi quei carabinieri sono a capo di un archivio che rappresenta un modello nel mondo, a cui si rivolgono per stage e addestramenti gli 007 europei, giapponesi, americani. Il colonnello Raffaele Mancino, che ha guidato fino a pochi giorni fa il Reparto, fa due conti sotto lo sguardo di una quattrocentesca Vergine del Ghirlandaio, valore 3 milioni di euro, ormai “regina” del vecchio ufficio. «Bisogna immaginare quei testi rari come oggetti invisibili, o quasi. Per questo, è un crimine in netta ascesa, quello del commercio di pagine antiche», premette Mancino. E aggiunge: «Il traffico si può valutare in decine di milioni all’anno. Gode di un mercato fortemente articolato, specie sul piano internazionale. Pseudo appassionati sono disposti a pagare cifre altissime per accaparrarsi cinquecentine o seicentine di inestimabile valore storico e scientifico. Il problema è che godono spesso di complicità eccellenti». Racconta il procuratore che a Napoli ha smascherato De Caro, Melillo, un bibliofilo anche lui, che «i libri o anche le sole pagine miniate diventano merce per club di potere, sfide giocate da un continente all’altro, senza bisogno di passare per i fondi protetti nei paradisi fiscali. Come se quelle pagine antiche fossero un titolo di garanzia». Giapponesi e russi sono grandi acquirenti di libri esibiti come status, o usati come pegno di tangenti milionarie: liberi di attraversare oceani per raggiungere collezioni private, o fungere da «fiches» di lusso prima di essere riscattati da movimenti di valuta con cinque e sei zeri.
IL FLUSSO DI DENARO
Ma quale flusso disegnano le statistiche? Chi sono questi banditi di libri antichi? L’antico vizio è un affare milionario che ha triplicato nell’ultimo triennio i suoi indicatori. I furti erano infatti 3.713 nel 2009, sono schizzati a 11.712 nel 2010 e si sono attestati appena sotto la soglia dei 10mila un anno fa. Numeri che offrono la garanzia dell’impunità: visto che a fronte di migliaia di furti, le denunce e gli arresti si contano — nel migliore dei casi — sue due mani. Mentre va meglio con i sequestri passati dai 16.397 del 2009 ai quasi 42mila del primo semestre 2012. Lazio, Umbria, Toscana e Campania le regioni più colpite, lì dove insistono abbazie, monasteri, antiche officine di studio.
Ma chi sono e dove colpiscono i ladri della carta preziosa che hanno svaligiato interi fondi? I banditi-Librì italiani hanno i volti più diversi. Ma un denominatore: facce pulite, valigetta o pc in spalla. A Cefalù, qualche anno fa, è pieno agosto quando i carabinieri risalgono a un insospettabile 41enne, Francesco, che è riuscito a rubare dalla biblioteca della Fondazione Mandralisca volumi rari per un valore complessivo di 500mila euro. Tutti messi in vendita su eBay: sarebbe stato l’ennesimo viaggio per il “De Rerum natura” di Lucrezio risalente al 1515, o per l’opera omnia di Aristotele datata 1579. Più di recente c’è stato chi, come Angelo, consulente economico di azienda, aveva puntato solo alle pagine miniate e ne aveva portate una dozzina nella sua casa del centro Italia, in Umbria, rispondendo esclusivamente di «incauto acquisto», e non c’è stato indizio in grado di ipotizzare la sua partecipazione ai furti. Più sofferta la cattura di Marcello, romano, 50 anni, che per due anni e mezzo è stato nel mirino dei carabinieri della “Tutela culturale”, inseguimenti spesso andati a vuoto. Fino a quella imprecisione che gli è costata la libertà, quel granellino di polvere che ha provocato la valanga. Nel suo caso, è stata la donazione sospetta ad un santo, in una chiesa peraltro “visitata” da lui stesso come ladro. Marcello conosceva i luoghi, ha lasciato le impronte, si è tradito. Ma la lotta è sempre impari. E i “capolavori” da ricercare: troppi.
Una pagina miniata di particolare bellezza, la Vergine quattrocentesca di Bartolomeo di Fruosino vale oggi 120mila euro. Mentre il testo più ricercato in Italia, da 27 anni, è un manoscritto da un milione di euro, un breviario del 1200: fu donato da San Filippo Benizzi a Santa Chiara da Montefalco (Perugia), e proprio dall’omonimo monastero è sparito nel 1985. Parole sedimentate per secoli, in quelle pagine, suonano come profetico monito. I predatori non potevano sapere d’aver fatto torto al meno bibliofilo dei santi, quel Filippo candidato al soglio pontificio. Diceva, Filippo: «Il Crocefisso è il mio testo caro, dove ho procurato d’imparare in vita. È l’unico libro che sia necessario leggere ». Altro che la febbre degli avidi Librì.
La Repubblica 02.11.12