Chi più delle donne dovrebbe essere convinta della necessità di un rinnovamento delle classi dirigenti? In un Paese saldamente collocato agli ultimi posti in Europa e nel mondo nelle graduatorie che classificano l’esclusione femminile dalla sfera pubblica – dal lavoro alla politica – le donne hanno tutto da guadagnare dallo «sblocco» di un sistema saldamente in mano maschile. E nessuno più delle donne è interessato ad una innovazione radicale del modo in cui la politica è stata intesa e praticata in questi anni, dominio assoluto di un capo che nomina persino i candidati nei listini regionali, investe i figli in incarichi politici o occupa i dibattiti parlamentari con leggi ad personam.
Per fare i conti con la necessità del cambiamento e contestualmente con la perdita di autorevolezza della politica bisogna leggere la deriva personalistica e proprietaria del potere e delle istituzioni che ha imperversato in questi anni e che ha favorito la cooptazione da un lato e dall’altra la competizione senza regole alimentata da denaro e clientele. Da tempo noi, e tante donne dei movimenti e delle associazioni, denunciamo l’intreccio strettissimo tra questa concezione e la marginalizzazione di una forza femminile sprecata e sottoutilizzata.
Da tempo siamo convinte – dando vita alla Conferenza delle democratiche – che per uscire da una crisi profondamente segnata da una concezione personalistica e proprietaria del potere e delle istituzioni serve un grande partito popolare, di donne ed uomini, che tenga insieme storie, culture e generazioni, che provi ad indirizzare la partecipazione democratica e rafforzare un legame vero tra eletti ed elettori, tra rappresentanti e rappresentati.
E quando Bersani dice che se toccherà a lui la candidatura a presidente del Consiglio leverà il suo nome dal simbolo compie un’ inversione di marcia necessaria rispetto alla storia di questi anni, perché dà valore alla sfida di una soggettività politica comune, un luogo di donne e uomini che, attraverso regole e meccanismi di selezione delle classi dirigenti, definiscono progetti e proposte per il Paese.
A tante di noi la parola «rottamazione» provoca repulsione, per i toni di disprezzo con i quali si accompagna, perché insegue la moneta corrente del «sono tutti uguali», perché – com’è stato detto – è il tentativo di cancellazione della storia e della configurazione del Pd. Apriamo una discussione su questi anni difficili, sui limiti e sulle intuizioni del gruppo dirigente che ha guidato il centro sinistra. Discutiamo del partito a cui abbiamo dato vita, degli errori che derivano dalla «fusione a freddo» a quelli di un rinnovamento avvenuto nei territori e a livello nazionale ancora troppo solo maschile. Ma ha ragione Mario Tronti, sull’Unità: il ricambio lo decidono i militanti, i quadri, gli iscritti, nelle sedi giuste, non i giornali o le televisioni, non sui blog o con i twitter.
Se il Pd rimane il perno dell’alternativa possibile è perché abbiamo lavorato per dare soluzioni credibili ad un Paese in crisi; le donne, noi per prime, si sono misurate in grandi movimenti che hanno occupato le piazze e con un’opinione pubblica femminile che chiede di cambiare rotta e di ricostruire un nesso tra società e politica, tra esigenze, bisogni della vita quotidiana e progetto politico. La nostra parola chiave di questi anni – democrazia paritaria – significa questo: ricostruzione civile, un nuovo patto tra uomini e donne per investire nel lavoro, nel welfare, in relazioni umane che riconoscano la libertà femminile. Significa l’impegno su misure concrete, a partire da una nuova legge elettorale che rispetti una presenza paritaria ed escluda le preferenze, l’attuazione piena dell’articolo 49 della Costituzione, un tetto ai finanziamenti delle campagne elettorali, una par condicio di genere nei media.
È una rivoluzione per la quale serve un patto tra donne che riconoscano il «noi» come un elemento di forza e non di debolezza. Voglio ricordare quello che avvenne nel febbraio del 2011 durante la Conferenza nazionale delle democratiche quando, in tempi non sospetti, Livia Turco parlò della necessità di un passaggio di testimone di una generazione all’altra. Fu un discorso politico forte, non semplicemente un messaggio personale, verso le più giovani. Lei disse che se vogliamo liberarci da ogni forma di subalternità al berlusconismo, le leadership non possono essere esercitate in solitaria e che la nuova generazione di donne che si dovrà affermare deve ritrovare la sua legittimità nella forza di un progetto comune. Che riconoscere una genealogia tra madri e figlie in un Paese che non ha madri ma solo padri della patria è essenziale anche per le sfide di governo che abbiamo di fronte.
«Rottamare» la storia delle donne è un’operazione reazionaria perchè cancella un patrimonio di cultura e di conquiste senza le quali non si fanno passi avanti.
Questa è la nostra scelta di campo, che parte certamente dal rispetto per le persone, ma anche dalla considerazione che vogliamo che una nuova generazione si affermi in un processo di rinnovamento dove la politica sia intesa come relazione e generosità, come gioco di squadra e non come un palcoscenico sopra il quale si passeggia con un microfono in mano.
L’Unità 30.10.12
Pubblicato il 30 Ottobre 2012