«Abbiamo vinto in Sicilia. Cose da pazzi. È un risultato storico». Bersani usa un aggettivo impegnativo in piazza a Arezzo di fronte a migliaia di persone per commentare quello che è successo nell’isola. Ma è un dato «storico» perché lì «dal dopoguerra a oggi fa notare non è mai capitato che un partito della sinistra riformista fosse in competizione per vincere». E invece questa volta il Pd, alleato con i centristi dell’Udc, non solo s’è giocato la partita, ma è andato in gol. «Tocca a Crocetta, a chi lo ha sostenuto, in particolare al Pd, interpretare adesso con forza l’esigenza di cambiamento dell’elettorato siciliano» dice Bersani confermando di fatto che l’esperimento siciliano non finirà in un cassetto. Certo in Sicilia è mancata («purtroppo» sottolinea) l’intesa con Sel, ma il progetto di ricomporre il campo delle forze progressiste e poi di cercare un intesa col centro resta in campo. Perché lo confermano i buoni numeri siciliani. Anche quelli del Pd il cui dato, suggerisce Bersani, va visto in relazione alla presenza anche della lista personale di Crocetta che ovviamente un po’ di voti democratici li ha dragati. Il che però non lo spinge a lanciare in aria tappi di spumante. Certo non sarebbe nel suo stile. Ma al di là del carattere c’è soprattutto una ragione politica che Bersani esplicita nella sua tappa toscana. Un giro fra le fabbriche di Firenze (Elsag e Nuovo Pignone) e Prato (la manifattura Bardazzi e la tessitura Castagnoli) una conclusione in serata con un comizio in piazza ad Arezzo.
Ed è davanti ai lavoratori riuniti nella saletta della Rsu del Pignone che, al di là della soddisfazione per il successo di Crocetta e del Pd, Bersani mette in guardia dalle nebbie che salgono dal voto siciliano. La prima e più preoccupante è la crescente disaffezione dei cittadini dal voto. L’enorme fronte astensionista che sale e che dall’isola è destinato a sbarcare anche nel continente. «È un anno che lo dico, il primo problema è questo: il distacco fra cittadini e politica» ragione a alta voce Bersani. Che vede qui il principale fronte per il Pd «Non è neanche più una battaglia fra destra e sinistra spiega -. È una battaglia fra un’idea di una sinistra riformista e uno stato di disagio e disarticolazione che è notevole. Impressionante. La destra si sta sfarinando e non è che quando si sfarina, come ci fanno leggere spesso i giornali va verso i moderati. No, si sfarina e i suoi elettori o stanno a casa o vanno da Grillo». Un fenomeno quello dei 5 Stelle che al di là delle discussioni su percentuali attese e poi ottenute Bersani invita a prendere in considerazione. «C’è risponde a chi gli domanda di un Grillo che non sfondaè c’è in modo serio». Che poi Grillo, come il non voto siano sintomi di una malattia e non il possibile rimedio, Bersani ne è straconvinto. Tanto da indicare in questa la vera sfida che attende il Pd. «C’è distacco, protesta, gente che non va a votare e poi ci siamo noi che siamo sostanzialmente l’unico argine, l’unica possibilità». Il Pd può stare su questo fronte proprio perché ha scelto di aprirsi con le primarie («guai se non le avessimo fatte») e non di chiudersi in un «fortino».
Così agli operai spiega che «se tocca a me parto da lì», dal ricomporre la frattura «larga» che in questi anni s’è scavata fra Paese, «anche fra gli stessi lavoratori», e le istituzioni e la politica. E partire da lì per Bersani significa rimettere al centro dell’azione politica alcuni principi basilari: onestà, pulizia, sobrietà. E poi lasciare da parte le «favole» e ri-immergersi nel mondo reale, «nella vita vera delle persone». Che poi è il motivo per cui il “format” della campagna delle primarie di Bersani sia così distante da quello di Renzi. «Se mi capita un palazzetto lo riempio anch’io» risponde con un sorriso il segretario Pd a chi gli fa notare che mentre lui gira le fabbriche il sindaco di Firenze riempie teatri e Palasport. «Ma ho scelto questo taglio perché credo che le primarie servano a mettere un orecchio a terra per ascoltare i problemi del Paese. Per fare un po’ di formazione professionale». E per far accendere i riflettori su chi la vita se la guadagna ogni giorno col proprio lavoro. Come quelli della Selex Elsag, gruppo Finmeccanica, con cui pranza alla mensa (alla cassa, dopo aver fatto la fila col suo vassoio e il suo piatto di trippa, tira fuori il portafoglio, ma gli operai non lo fanno pagare) che rischiano il posto perché sono stati bloccati i fondi al progetto per una rete di comunicazione unica fra tutte e 5 le forze di polizia. O come Claudio Giardi, rsu Nuovo Pignone, che ha 59 anni ma «grazie alla Fornero» dovrà starsene in fabbrica ancora qualche anno, e che dando il benvenuto a Bersani (anche a nome di altre rsu, compresa quella del Maggio musicale fiorentino) fa una dichiarazione di voto esplicita: «Te lo dico col cuore, cerca di vincere altrimenti poi per noi sarebbe un problema andare a votare».
Pericolo che Bersani punta ovviamente a scongiurare. Così spiega di non vedere altra strada per la sinistra riformista che non sia quella di ancorarsi alle forze reali del Paese e della sua economia: il lavoro e le imprese che investono per creare lavoro. Il che significa dal punto di vista politico rimettere al centro queste figure di imprenditori, operai e insegnanti e non staccarsi dalle proprie radici. Senza cui le foglie nuove che propone qualcuno non sono altro che foglie prese da altri alberi, e non di sinistra. Radici che Bersani vede profonde nelle lotte per l’emancipazione di fine 800, dei più deboli che si riunivano per alzare la testa e rivendicare i propri diritti. Come racconta la grande foto color seppia di operai che sta alle sue spalle. È del 1920. «Noi assicura Bersani ripartiremo da chi la vita se la deve sudare».
L’Unità 30.10.12
Pubblicato il 30 Ottobre 2012