Non è vero che la campagna per le primarie del centrosinistra è solo competizione personale e scontro sulle regole. I media hanno dato più risalto a polemiche e ricorsi, ma in realtà sono emerse questioni chiave in termini di contenuti e di principi. Come il tema dell’eguaglianza e delle opportunità: si tratta di mettere tutti nella stesse condizioni sulla linea di partenza o le istituzioni pubbliche devono intervenire anche durante il percorso, per far sì che all’arrivo non ci siano eccessive diseguaglianze? Norberto Bobbio, in suo libretto di grande successo, sosteneva alcuni anni fa che è l’ideale dell’eguaglianza a connotare la sinistra rispetto alla destra. Sono di sinistra coloro che «pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali che diseguali, danno maggiore importanza, per giudicarli e per attribuire loro diritti e doveri, a ciò che li rende uguali piuttosto che a ciò che li rende diseguali». Eppure in questi anni di eguaglianza si è parlato poco, anche a sinistra. Da un lato si è gettato l’anatema sull’egualitarismo, visto come uno dei frutti più avvelenati del sessantotto, del presunto strapotere sindacale negli anni settanta, dello statalismo, come il nemico mortale della meritocrazia e dell’intraprendenza individuale. E così, dalla «Terza via» di Blair in giù si è guardato con attenzione all’idea dell’eguaglianza delle opportunità (un congresso del Pds è stato dedicato al «Welfare delle opportunità»).
Nel frattempo, in un Paese senza mobilità sociale come il nostro la destra ci ha messo del suo per aumentare la diseguaglianza delle opportunità, dall’attacco alla scuola all’abolizione dell’imposta di successione. D’altro lato a mettere in ombra l’uguaglianza ha contribuito la prepotente affermazione sulla scena politica del tema delle differenze di genere e culturali; perché non sempre si è avuto cura di distinguere fra differenza e diseguaglianza, e ci si è spesso dimenticati che l’eguaglianza economica è una condizione che favorisce l’affermazione – pacifica – delle differenze.
La crisi globale riporta alla ribalta l’eguaglianza. È sempre più difficile oscurare quella colossale redistribuzione negativa di reddito dal lavoro alla rendita, quell’impressionante aumento della forbice sociale che si è consumato in questi anni. Ma il tema ha un profilo teorico molto profondo, che affonda le sue radici alle origini del pensiero occidentale.
Nella tradizione antica e medievale l’idea della naturale diseguaglianza è senso comune. Gli uomini, insegna Aristotele, sono diversi fra loro e per questo complementari, reciprocamente dipendenti. La socievolezza si origina dal bisogno reciproco; ma la differenza si volge immediatamente in diseguaglianza. Il maschio e la femmina hanno bisogno l’uno dell’altra per la riproduzione, ma questo si risolve in una «naturale» subordinazione delle donne; e su questa via si arriva all’idea della schiavitù per natura.
«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti», recita l’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani. L’idea della naturale eguaglianza è alla base della filosofia politica moderna. Nel Seicento è Thomas Hobbes a definire una visione dell’uomo specularmente opposta a quella tradizionale: gli uomini sono eguali e desiderano le stesse cose. Ma le risorse sono scarse e il modo più «economico» di procurarsele è usare la forza; di qui l’impossibilità della socialità e la conflittualità continua di tutti contro tutti. Da questa situazione si esce solo con l’istituzione del potere statale, attraverso il completo trasferimento al sovrano dei diritti individuali. È solo la spada del Leviatano a rendere possibile l’ordine e imporre l’unica forma di socialità possibile, quella indotta dalla paura della punizione.
Da una parte una visione sociale dell’essere umano che assume le differenze naturali come radice della complementarietà ma le declina, immediatamente, in termini di sovraordinazione e di subordinazione, fino agli estremi della schiavitù naturale e della naturale inferiorità delle donne; dall’altra parte l’eguaglianza naturale rimanda ad un’antropologia dell’isolamento, se non del conflitto onnipervasivo e generalizzato, mentre i diritti naturali appaiono come proprietà del singolo, ad esclusione degli altri. È un dilemma sconfortante. Ma nel pensiero moderno non c’è solo questo.
Nel Settecento Adam Ferguson parla del «senso di eguaglianza che non tollera alcuna violazione dei diritti personali dell’ultimo cittadino, lo spirito che disdegna di chiedere protezione e non accetta come un favore ciò che gli è dovuto come diritto». L’accento si sposta dalla condizione naturale di eguaglianza al sentimento di eguaglianza; in Hobbes l’eguaglianza naturale era alla radice della paura e della conseguente necessità di trasferire i diritti al sovrano; qui il sentimento dell’eguaglianza è all’origine della tutela attiva degli individui dal dominio, e i diritti esprimono l’attivismo dei cittadini in difesa della libertà. La virtù civica mostra un tratto indelebile di attivismo e si esprime nella capacità di mobilitazione: adagiarsi sul godimento dei diritti statuiti è un rischio per la libertà: occorre la costante disposizione ad «opporsi agli oltraggi» e a difendere la libertà. Ferguson propone dunque una visione dell’eguaglianza come valore da perseguire e obiettivo per le istituzioni, risultato di un processo che implica il conflitto sociale.
L’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana afferma l’eguaglianza e la pari dignità dei cittadini di fronte alla legge. E aggiunge: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Qui l’eguaglianza sociale è vista come un processo, un obiettivo da raggiungere, e implica sia la partecipazione dei cittadini che l’azione delle istituzioni pubbliche.
Lelio Basso – il costituente che ha redatto l’articolo 3 – lo dichiarava esplicitamente: il secondo comma riconosce che l’eguaglianza nella società non c’è e pone all’ordinamento giuridico il compito di realizzarla; «l’ordine giuridico è in contrasto con l’ordine sociale perché l’ordine giuridico (articolo 3) vuole l’uguaglianza ma riconosce che l’uguaglianza non c’è. Quindi riconosce che in Italia c’è un ordine sociale di fatto che è in contrasto con l’ordine giuridico». Ciò significa, fra l’altro, introdurre nell’ordinamento «elementi antagonistici alla logica capitalistica», aprendolo alle istanze dei conflitti sociali. E in effetti, a Bobbio si potrebbe replicare che nella ragione costitutiva della sinistra non c’è solo l’obiettivo dell’eguaglianza sostanziale ma anche l’istanza del cambiamento.
L’Unità 29.10.12
Pubblicato il 29 Ottobre 2012