La giustizia penale, che ha come compito l’accertamento e la repressione dei reati, può ignorare la sofferenza e i corpi straziati delle vittime? Può essere indifferente rispetto alle domande di risarcimento materiale e immateriale dei sopravvissuti? Sono domande che attraversano la discussione pubblica dopo sentenze come quella per l’incendio alla Thyssen-Krupp o quella per il terremoto in Abruzzo. Partendo da quest’ultima, in un editoriale su Avvenire di mercoledì scorso, Marco Olivetti indica quali sono, a suo avviso, le deformazioni dell’amministrazione della giustizia ma, prima ancora, del funzionamento di uno Stato di diritto. Olivetti segnala tre tendenze negative di cui il verdetto dell’Aquila sarebbe espressione e, allo stesso tempo, fattore di incentivazione:
1) «la dilatazione senza limiti della sfera della giustizia penale che assorbe qualsiasi altro tipo di controllo. Se anche si ammettesse che i membri della Commissione Grandi rischi siano responsabili di una qualche forma di negligenza, la giustizia penale dovrebbe essere comunque l’extrema ratio».
2) La «estensione proteiforme» della nozione di responsabilità, anche in sede civile: «in questo contesto nessuno è certo che un qualsiasi suo comportamento non produca danni a terzi, specie a fronte di professioni (si pensi a quella medica) intrinsecamente connesse a possibili effetti dannosi di azioni o omissioni umane».
3) L’affermarsi di «una concezione della giustizia penale che mette al centro le vittime, invece della funzione statale di repressione oggettiva dei reati». La conseguenza di tutto ciò sarebbe progressivo slittamento del nostro Stato di diritto verso uno «Stato di giustizia», dove verrebbero soddisfatte le domande di equità e di risarcimento di vittime e gruppi sociali deboli, sostenuti da movimenti di opinione: e non verrebbero rispettati, invece, i principi classici del processo penale, come la «legalità, prevedibilità, stretta causalità, responsabilità personale».
Come si vede, quella esposta da Olivetti, è una sistematica analisi critica dell’amministrazione della giustizia in Italia e delle forzature e storture cui è sottoposto il diritto. È una diagnosi assai interessante, che merita di essere discussa e, a sua volta, sottoposta a critica.
Sul punto 1, il mio accordo è incondizionato: di pan-penalismo si parla ormai da decenni e, da decenni, si stigmatizza il ricorso esorbitante alla norma penale e per qualificare atti e comportamenti altrimenti sanzionabili, e per reprimere penalmente (in specie con la detenzione) qualsiasi fatto che corrisponda a un illecito. Dunque, non c’è il minimo dubbio che la giustizia penale, lungi dall’essere utilizzata come extrema ratio, viene costantemente applicata ai più diversi campi della vita sociale. Anche la questione della abnorme estensione del concetto di responsabilità è, in astratto, condivisibile. Ma nei fatti e nelle concrete circostanze di eventi luttuosi la responsabilità individuale per gli «effetti dannosi di azioni od omissioni umane» non può essere elusa.
Prendiamo due esempi evocati da Olivetti. L’incendio alla Thyssen-Krupp e le conseguenze di errori e colpe in materia sanitaria. Nel primo caso, la responsabilità appare ben definita e ben circoscritta, corposamente e materialmente riconoscibile e documentabile (si può discutere, eventualmente, se si tratti di dolo o colpa) una volta accertato il nesso causale tra l’evento letale e il mancato rispetto delle norme a tutela della sicurezza sul lavoro. Chi altri, se non proprietà e management, è responsabile di quel mancato rispetto? E, nel caso specifico, l’eventualità dell’incendio non era semplicemente un’ipotesi virtuale, bensì una conseguenza probabilisticamente plausibile dello stato in cui si trovavano gli stabilimenti; e degli atti, concreti e diretti, volti a ridurre per ragioni economiche le misure di sicurezza e a non rimuovere i fattori di rischio.
E questo vale anche per le professioni, come quella medica, dove la responsabilità relativa ad azioni e omissioni è messa alla prova costantemente. Massima cautela e ricorso a parametri scientifici di valutazione soprattutto nell’accertamento del nesso causale tra condotta umana ed evento, ma non si può ignorare che alcune professioni proprio perché ad altissimo tasso di responsabilità esigano il massimo senso di consapevolezza.
Descrivo uno scenario: quello del reparto psichiatrico dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania, tra il 31 luglio e il 4 agosto 2009. Osserviamo un uomo, legati i polsi e le caviglie, immobilizzato in uno stato di totale abbandono terapeutico. Attorno al suo letto per 82 ore (è quanto dura la sua agonia) si muovono 12 infermieri e 6 medici. È possibile sottrarre ciascuno di essi sì ciascuno di essi a una chiamata individuale di responsabilità? E quelle «azioni e omissioni umane» verificatesi in quel reparto psichiatrico (contenzione per un tempo irragionevolmente lungo e omissione di cura ma anche di nutrizione nei confronti di un ricoverato coatto) non configurano, forse, una fattispecie penale?
Infine, la questione più delicata: non c’è dubbio che la giustizia penale si fonda sulla «funzione statale di repressione oggettiva dei reati», ma immaginare che ciò escluda, o metta ai margini, la figura della vittima, mi sembra una conseguenza indebita. Assegnare alle vittime la giusta collocazione nel processo penale non significa in alcun modo come scrive Olivetti affidare «ai privati il diritto di farsi giustizia da sé» enfatizzando «elementi di vendetta, più o meno primitivi». Certo, la giustizia penale deve accertare reati, ma quei reati, oltre a violare norme e a causare disordine sociale, hanno prodotto lesioni su terzi. E, dunque, il diritto dei terzi (le vittime) a quel risarcimento che è la sanzione degli autori di reato, non può essere escluso dallo spazio del processo: anche per chi ritiene che il diritto penale debba essere soprattutto una «Magna Charta del reo».
In altre parole, in presenza di un «reato con vittima», la personalità giuridica, ma anche la corporeità di quest’ultima, è componente necessaria della dialettica processuale: e la sanzione del reato, quando vi sia, ha conseguenze che direttamente la riguardano. Dimenticarlo è un’offesa alle vittime, e al diritto.
l’Unità 287.10.12
Pubblicato il 27 Ottobre 2012