attualità, cultura, pari opportunità | diritti

Giornalisti, perché i cittadini non tifano per noi", di Cesare Martinetti

Le convulsioni trasversali che attraversano la politica nell’imbarazzato e imbarazzante dibattito sulla diffamazione a mezzo stampa sono da considerarsi un altro capitolo del disfacimento della seconda Repubblica. Ora siamo alla resa dei conti, al duello finale: questo rappresenta il disegno di legge che lunedì sarà votato in Senato. La burocratica e caricaturale contabilità di spazi e di risarcimenti che i giornali devono dedicare alle riparazioni di diffamazioni ed inesattezze non costituiscono una difesa dell’onorabilità dei cittadini, ma tradiscono l’incapacità di vivere responsabilmente un’idea liberale del rapporto tra stampa e pubblici poteri.
Affermare per legge l’obbligo alla rettifica di affermazioni ritenute diffamatorie o semplicemente errate senza la possibilità di replica quando anche si potesse dimostrare la verità di quanto è stato scritto, l’obbligo di pubblicazione delle rettifiche nella parte alta della pagina, senza limite di spazio a disposizione di chi si ritiene diffamato, è irrealistico, irragionevole. Nella sostanza una minaccia rivolta contro i giornali, giornalisti ed editori dettata dal risentimento e dalla voglia di vendetta.
Ciò detto sarà bene non cadere nell’errore opposto e rendere a sua volta caricaturale, ideologica ed opportunistica l’opposizione civile e legittima a una legge che declina in modi assurdi la giusta esigenza di difendere il singolo cittadino nell’intangibile bene della propria onorabilità.
Il dibattito e la legge nascono dal caso Sallusti, il direttore de «il Giornale» condannato a 14 mesi di carcere per la diffamazione di un giudice. Lo diciamo senza equivoci: il carcere è una misura sbagliata e va cancellata dall’ordinamento. Sallusti, poi, è chiaramente vittima di un accanimento ad personam. Ciò detto, però, dato che la sua condanna è dovuta a diffamazione, non ad un’opinione, perché lui e il suo giornale non hanno mai rettificato una notizia falsa? Ci voleva tanto? Correggere un errore è segno di onestà, non di debolezza. Una stampa credibile è una stampa che non fa sconti a nessuno, nemmeno a se stessa. L’autorevolezza non deriva dalla furbizia dei titoli con cui si fa il giornale, ma con la qualità di quel che c’è scritto dentro, la libertà e l’indipendenza delle opinioni, la trasparenza delle proprietà, la capacità di leggere i fenomeni sociali, di interpretare la domanda di informazione dei propri lettori.
È su questo punto che giornali e giornalisti devono riflettere. Se provassimo a fare di questa vicenda una battaglia generale, non credo che troveremo folle disposte a scendere in piazza per difendere «questa» nostra libertà di stampa. Quando è successo, recentemente, è stato contro l’ipotesi di vietare la pubblicazione delle intercettazioni, si trattava però di movimenti girotondini – rispettabili e legittimi – ma partigiani, votati soltanto alla caduta dell’arcinemico Berlusconi. Certo, i giornali non ideologici sono strumenti di informazione, per natura problematici e pluralisti, non smuovono le masse. Ma l’impressione è che i cittadini vivano tutto questo come lo scontro tra due caste, l’una assediata dall’antipolitica (rappresentata simbolicamente dalle percentuali di Grillo in ascesa costante nei sondaggi) che cerca di rivalersi sulla seconda a cui attribuisce tutta la colpa della sua caduta.
È la fine di un compromesso a suo modo storico nella storia italiana, dove i giornali sono sempre stati vissuti come l’altra faccia della politica e mai come ora appaiono lontani dal quel modello di «cane da guardia del potere» rappresentato dalla stampa americana o semplicemente da un modello liberale di informazione. Andate a leggere un po’ di blog sparsi, fate un tuffo nel «giornalismo cittadino» della nuova web-era. I giornalisti sono spesso considerati lecchini e carrieristi, non «cani da guardia», bensì cani «da compagnia e spesso da riporto», per l’appunto una casta accanto alla casta. Quella che non si sente è la voce di una cultura democratica dell’informazione, l’accettazione di un potere che comporta responsabilità da parte di chi lo fa e di chi lo subisce.
Vecchio vizio italiano. Prendiamo uno come Andreotti: di lui, i giornali hanno veramente scritto di tutto, eppure non smentiva mai. Era il «Belzebù della storia d’Italia». E oramai è lecito pensare che tutto fosse vero o quasi vero; o anche tutto falso o quasi falso. Chissà. Diceva Andreotti, se tu mandi una richiesta di rettifica al giornale, quello pubblica la tua lettera, ma gli attacca una risposta. Nessuno dei due aveva – spesso – qualsivoglia prova: né che la notizia pubblicata fosse vera, né falsa. E così, la richiesta di rettifica, diventava una notizia data due volte.
L’autorevolezza di una classe politica si misura anche nella capacità di confrontarsi con una stampa libera, nella qualità della propria comunicazione, nei contenuti delle cose che ha da dire. E qui siamo al disfacimento della seconda Repubblica. Come non vedere invece in questa regolamentazione assurda delle rettifiche anche una guerra tutta interna alla politica tra chi sa usare e chi non sa usare i giornali, tra quelli che sanno far filtrare le loro indiscrezioni e quelli che invece vengono regolarmente sorpassati da queste quando non messi regolarmente alla berlina? In questo disegno di legge c’è anche l’evidente vendetta (trasversale) degli esclusi, quelli che finiscono sui giornali nei retroscena politici solo su citazioni altrui, insinuanti e avvelenate. E quelli che tentano goffamente di difendersi (ignorando l’aureo insegnamento andreottiano) inviando ai giornali impettite richieste di smentita inevitabilmente destinate alla scontata – spesso con fondamento ma anche no – risposta beffarda del giornalista: «Confermo quanto ho scritto».
Costume e malcostume, di qua e di là, in una battaglia il cui vero dramma è l’estraneità dal mondo reale, di un vero interesse pubblico. Come ha scritto l’altro ieri sul nostro giornale Carlo Federico Grosso, cancelliamo il carcere e lasciamo le cose come stanno. I politici facciano della buona politica, e i giornalisti dei buoni giornali.
La Stampa 26.10.12