Non ci sono toni celebrativi nel libro-intervista di Susanna Camusso (Il lavoro perduto, editori Laterza). La «ragazza con la sciarpa rosa», che continua ad amare Hobsbawm anche ora che è alla guida della Cgil, avrebbe potuto solleticare l’orgoglio di sindacato.
Cosa sarebbe l’Italia senza la Cgil? In anni turbolenti, che hanno sconvolto la repubblica dei partiti e spezzato simboli, organizzazioni, identità, il mondo del lavoro è rimasto, con le sue strutture di mobilitazione, un presidio per una democrazia smarrita. Questo anello della continuità storica della nazione nonché garante della tenuta sociale in un sistema sfilacciato nelle sue istituzioni, ha consentito al Paese di reggere il carico di sfide difficili.
Più che rivendicare i meriti acquisiti, a Camusso preme ragionare sulle difficoltà del sindacato oggi, costretto a divincolarsi in «una stagione difensiva» entro cui il lavoro percepisce il suo scivolamento verso una condizione di povertà. Il segretario della Cgil avrebbe potuto accentuare il ritratto a tinte fosche di un’età di capitalismo irresponsabile inginocchiato dinanzi ad una aggressiva finanza speculativa («Prima della crisi le imprese hanno goduto a lungo di alti profitti. Hanno scelto di spostare gli asset nella finanza, immaginando di ricavarne un guadagno alto e a breve»). E invece la sua ossessione è di ricercare la via dell’innovazione culturale e organizzativa per riparare ad un deficit di rappresentanza (delle professioni precarie, autonome e flessibili).
Disgregato dalle delocalizzazioni, frantumato dal micro capitalismo, disarticolato dalle invenzioni giuridiche di una miriade di tipologie contrattuali, intrappolato dall’indebolimento della contrattazione nazionale, il mondo del lavoro deve cicatrizzare le ferite e inventare strategie per rappresentare i nuovi e antichi ceti subalterni. Certo che la rappresentazione dei nuovi lavori invisibili e la sorte disperata delle due generazioni usa e getta, sfidano anche il sindacato, spesso percepito come la trincea dei garantiti («Dove le assunzioni si fanno, i nostri iscritti sono anche i giovani», ricorda Camusso). Ma il sindacato penetra nell’universo del lavoro atipico, nei call center o negli studi professionali è la vittima di questa cieca propensione del capitale ad edificare un regime dell’insicurezza permanente (anche a chi lavora in un cantiere fanno aprire una partita Iva!), non certo l’artefice di gabbie di esclusione. Nondimeno Camusso riconosce che la linea della solidarietà con i precari si è infranta e che «abbiamo sbagliato a non usare la forza collettiva dei più garantiti per difendere anche le persone senza contratto o con contratto atipico».
Il blocco parassitario insediato in Italia non è riconducibile al sindacato dei diritti, che invoca mutazioni di processo e di prodotto, ma a un capitalismo che accumula ricchezza senza alcuna innovazione, che compete nel mercato globale senza effettuare gli investimenti adeguati. Solo con il contenimento del costo del lavoro e con la precarizzazione di massa non si determina però la crescita, si sparge anomia e inefficienza. Rispetto all’asfissia dell’impresa e ai ritardi delle istituzioni, il sindacato pratica da sé l’apertura universalistica che solo il lavoro può sprigionare. Andando oltre le stratificazioni etniche, riconosce un ruolo all’immigrato (il 15 per cento degli iscritti è straniero) sulla base dell’assunto di Camusso che «il sudore del corpo che lavora ha un solo colore».
Le contraddizioni del tempo non giustificano i ritardi (Camusso trova strano che i giudici con «interpretazioni ardite» abbiano letto l’art. 18 come il divieto di licenziamento in assoluto) nella costruzione della postmoderna rappresentanza sociale (gli autonomi precari pagano la stessa aliquota di un dipendente senza avere però uguali prestazioni previdenziali, assicurative, sanitarie). La lotta alle diseguaglianze non esclude per Camusso un momento di cooperazione con una impresa che davvero interpreti l’innovazione e smetta di sognare un soggetto insicuro, precario, più povero. Non Marchionne, con le sue venature dispotiche, ma Squinzi («Un imprenditore che ama la sua azienda, non punta a dividere i sindacati e non vuole entrare in politica») può essere un interlocutore nel ridefinire il rapporto tra impresa e lavoro.
Nella debolezza del sistema produttivo una redistribuzione del reddito passa più che su una strategia del conflitto su una leva fiscale che combatta l’evasione come fattore di diseguaglianza. Per Camusso il conflitto va declinato in forme nuove. La figura centrale della classe (il bracciante, l’operaio di fabbrica) non è oggi disponibile e anzi la categoria con la maggiore quota di iscritti nella Cgil è quella dei lavoratori del terziario (commercio, servizi, turismo dove peraltro l’età media dei delegati è sotto i 30 anni). Ciò impone al sindacato un potenziamento della sua natura confederale e la rinuncia a sirene corporative. Il richiamo al generale non è estraneo al sindacato che non respinge le politiche di rigore, quando necessarie. Per il carico di sacrifici connessi alla pratica della concertazione, Camusso polemizza con le deformazioni semantiche di Monti che descrive un fantasioso paradiso di concessioni e di sprechi. La classe lavoratrice non ha mai avuto bisogno di lezioni edificanti per rispolverare il senso dello Stato, appannato proprio nei ceti dominanti.
La crescita per Camusso scavalca gli accordi tra le parti sociali ed evoca un nuovo governo pubblico (grandi opere, politica industriale, riacquisizioni, investimenti di qualità e di indirizzo a utilità differita, cura di aziende strategiche). Il nesso con la politica è ineludibile: «Il sindacato deve essere autonomo da ogni governo, non indifferente a chi governa». Il ruolo politico del sindacato non significa, come ha ritenuto la Fiom, costruire uno specifico soggetto. Implica invece per Camusso la possibilità di guardare con attenzione agli sforzi per recuperare un radicamento sociale dopo le scorciatoie del Lingotto. Dinanzi a un partito che con Bersani torna a cimentarsi sulla rappresentanza del lavoro, la Cgil non può restare indifferente.
Oggi Camusso rimarca un connubio insidioso tra liberismo e antipolitica proposto dai poteri dell’economia che hanno sostenuto il ventennio berlusconiano con la sua grottesca fabbrica della devianza. Il lavoro è rimasto l’unico principio di realtà in un Paese che proprio nelle sue classi dirigenti si è lasciato incantare da stupide narrazioni. Le velleità di ricollocare la sinistra sul terreno del liberismo (la vita come un eterno centro commerciale in cui il consumatore trova appagamento simbolico e cestina cultura, civismo, beni pubblici e comuni) appaiono sorprendenti.
Riscoprire il lavoro perduto secondo Camusso è la risposta a queste derive. Senza il lavoro si spezza l’identità del soggetto, si infrange la via della responsabilità, si inaridisce il percorso dell’autonomia. Non si combatte la disuguaglianza, l’esclusione, la marginalità e il declino senza provare a rappresentare il lavoro. Il lavoro è in Camusso la condizione per la restituzione di visibilità allo spazio pubblico, che pare sempre più colonizzato dalle potenze del denaro. Riemergono così antiche questioni di libertà e liberazione. Camusso le ripropone con una bella immagine di Trentin: «Un operaio deve poter imparare a suonare il violino se vuole».
L’Unità 25.10.12
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“Mi fa paura l’autoritarismo del movimento di Grillo”. Camusso: è un’organizzazione considerata come proprietà del leader, di Stefano Lepri
Quello che segue è un estratto del libro intervista di Stefano Lepri al leader della Cgil Susanna Camusso L’ irrigidimento delle strutture dei vecchi partiti favorisce il formarsi di partiti nuovi Il Movimento 5 Stelle è un misto singolare di partecipazione volontaria e di leaderismo…
«A me fanno paura le formazioni politiche o i partiti, diciamo così, personali, perché hanno in sé una quota di autoritarismo, di non costruzione dell’interesse collettivo. L’ho pensato e lo penso del berlusconismo, e lo penso ora di Beppe Grillo. Paradossalmente, lo penserei anche di Sinistra e Libertà nel momento in cui diventasse un raggruppamento costruito attorno al nome di Vendola e non una vera organizzazione. Anche nell’Italia dei Valori è presente, almeno in parte, questo problema. Purtroppo esistono anche esiti pessimi, come dimostra la Lega Nord, quando le generazioni successive sono già indicate, quando ci sono i discendenti del capo. Ovvero quando si ha un’idea della politica come luogo del proprio potere personale anziché come luogo di rappresentanza. Nel movimento di Grillo intravedo già alcuni fenomeni di questo tipo, di un’organizzazione considerata come proprietà personale del leader. Va detto tuttavia che Grillo è sicuramente un innovatore: il modello che ha costruito (sempreché lo rispetti), e cioè l’organizzazione aperta sulla Rete, il fatto di non andare in televisione (non so se per scelta o per obbligo) suggerisce un’idea nuova. Fa capire che forse non c’è un solo modo di fare politica, tutto molto formalizzato e virtuale (la tv), ma che si può usare l’informatica in maniera diversa. Anche se la Rete è anch’essa una realtà virtuale: in teoria è interattiva, poi non so quanto lo sia davvero».
Nelle ultime esperienze, Internet serve molto più a sfogarsi che a interagire con gli altri. Spesso quello che emerge è il peggio delle persone.
«Talvolta è così. In partenza è un modello che può essere anche interattivo; poi succede che siccome Internet è una forma di anonimato diffuso, vale il fatto ben noto da sempre che nelle lettere anonime la gente non dà il meglio di sé. Però usare la Rete per organizzare l’attività politica è sicuramente un’innovazione importante; ha risposto a una spinta che indubitabilmente esisteva. La sua fortuna è l’autoreferenzialità del sistema politico, così è facile apparire vicini alle persone, comunicare con loro. Su questa base, Grillo fa poi un’operazione di rottamazione violenta, ed io non sono affatto convinta che la rottamazione di per sé sia un valore. Per quel che vedo, Grillo non ha un’idea del Paese, non la comunica; la sua idea, per quanto è dato capire, è che si deve buttare via tutto. Secondo lui, nulla di ciò che è stato fatto è degno di essere salvato. Questo modo di pensare mi lascia quantomeno perplessa, perché in fondo se siamo qua… Certo, l’Italia ha tanti problemi, ma siamo diventati anche un grande Paese, abbiamo tante risorse, idee, cultura. Prendere tutto e buttarlo dalla finestra insegue la logica della contestazione per il gusto di protestare; ti consente anche di non dire cosa vuoi fare tu. Gridare che tutti fanno schifo fa molta audience, non c’è dubbio, raccoglie un sentimento popolare, ma poi? Se è vero che l’elezione del sindaco di un Comune disastrato da tante vicende di malgoverno come Parma si è giocata sulla questione dell’inceneritore, e l’ha vinta chi dice che l’inceneritore è la morte, ho seri dubbi che solamente su questo si possa costruire un’altra politica».
Spesso il «fanno tutti schifo» si lega al rifiuto di qualsiasi novità: non si deve costruire nulla, nemmeno le pale eoliche, stiamo bene così. Sui blog dell’antipolitica, siparlapocodisindacato, ma se si fa una ricerca sul nome di Susanna Camusso, si trovano soprattutto insulti perché ha detto sì alla Tav.
«La Cgil, nel suo congresso, ha detto sì alla Torino-Lione con il discernimento che ha sempre cercato di avere. Ci accusano di aver ceduto soltanto perché crea posti di lavoro. Ma non è affatto vero che qualunque opera pubblica ci vada bene. Per esempio, ci siamo opposti al ponte sullo Stretto di Messina. Non condividiamo invece l’idea che qualunque opera pubblica, siccome può essere frutto di corruzione, può avere gli appalti truccati, spende denaro pubblico, o potrà provocare in futuro impatti ambientali oggi imprevedibili, allora no, non si deve fare mai. Che idea di Paese ne viene fuori? Dove vogliamo andare? Qual è la struttura del Paese che si immagina? ».
La Stampa 25.10.12
Pubblicato il 25 Ottobre 2012