E’ probabile che nulla fosse più lontano dalle intenzioni di chi reca la responsabilità del sistema scolastico dell’idea di aprire un dibattito sullo stato della scuola e sulla necessità di una sua riforma (o di una refondation del’école, come in questi mesi si usa dire in Francia). Eppure, è ciò che è accaduto, tanto da far apparire irreale il ripiegamento sulla questione dell’aumento dell’orario settimanale di lavoro nelle secondarie dalle 24 ore annunciate alle 18 ore consuete. Non si può, dopo aver sollecitato un punto così sensibile com’è quello dell’organizzazione del lavoro far finta di niente. Niente è come prima. L’incauta sortita sull’orario di lavoro ha sollecitato, implicitamente, gli insegnanti a riflettere su ciò che fanno prima, durante e dopo le 18 ore che costituiscono il loro impegno formalmente riconosciuto. Non si venga a dire che solo una parte degli insegnanti impegna un tempo aggiuntivo considerevole per essere in condizione di svolgere in modo adeguato l’attività didattica. Sarebbe il solito argomento sulla base del quale si apprezza, anche in modo enfatico, qualche caso specialmente virtuoso per criticare più pesantemente i comportamenti difformi. Il fatto è che quando si deve riflettere sui problemi di un gruppo professionale che conta molte centinaia di migliaia di addetti non ci si può limitare a considerare i casi estremi, nel bene e nel male, ma occorre capire quali siano le condizioni normali di lavoro della grande maggioranza degli insegnanti, le difficoltà che incontrano, il disagio che deriva dallo sbiadimento o dalla perdita di quei simboli sociali che in altri momenti hanno, almeno in parte, compensato la modestia delle retribuzioni. La proposta di aumentare di un terzo l’orario di lavoro, al di là degli aspetti strettamente sindacali, lascia emergere una sostanziale incomprensione non solo del lavoro degli insegnanti, ma del progressivo complicarsi della funzione educativa della scuola. Chi pensa che le risorse destinate all’educazione siano eccessive, e che riducendone l’ammontare sia possibile migliorarne la finalizzazione, mostra di avere come riferimento un modello arcaico di scuola, quello che nei paesi industrializzati ha caratterizzato la fase, generalmente superata, dell’espansione quantitativa dei sistemi d’istruzione. È proprio di un modello arcaico della scolarizzazione pensare a un’utilizzazione del personale centrata sull’orario delle lezioni. Da un lato (quello degli allievi) si è proceduto alla riduzione del tempo educativo, dall’altro (dalla parte degli insegnati) si è pensato di prolungare l’orario di servizio. L’organizzazione delle scuole si è ridotta a una semplice questione contabile, quella di far corrispondere il numero complessivo di ore di lavoro degli insegnanti al numero di ore occorrente per assicurare a ciascuna classe le lezioni previste. Quello che viene affermato è una sorta di minimalismo educativo che si cerca di nascondere sotto le fumisterie ideologiche della cosiddetta meritocrazia. Ma nessuno dei campioni della meritocrazia si è mai preoccupato di spiegare per quale ragione i rampolli delle classi favorite fruiscano generalmente (per esempio, in America, nel Regno Unito, ora anche in Cina) di un’educazione scolastica che si distende fra il mattino e il pomeriggio e che solo in parte consiste in lezioni, o in quel che oggi corrisponde ad esse, mentre per il resto è costituita da esperienze volte a consolidare ciò che si è appreso, a riflettere sul rapporto tra l’apprendimento e la natura, tra il pensiero e l’azione, tra l’individuo e la società. Agli insegnanti si chiede non solo di trasferire repertori di conoscenze, ma di contribuire in modo sostanziale a qualificare le esperienze che si effettuano nel tempo di funzionamento delle scuole. Il fatto che ai nostri insegnanti sia stato prospettato con una gelida norma legislativa il passaggio da 18 a 24 ore, in assenza di un disegno volto a trasformare i modi dell’educazione scolastica, è un segnale estremamente negativo: si può pensare a un sostanziale disimpegno per quel che riguarda la scuola pubblica, alla quale accede la gran parte degli allievi, per lasciare spazio, come è avvenuto in paesi come quelli prima menzionati, a scuole d’élite. Gli insegnanti subirebbero quanto gli allievi un tale disimpegno, in termini di ulteriore impoverimento della loro immagine professionale e sociale. Si capisce quindi perché il rifiuto delle 24 ore sia stato corale, e perché si sia aperto uno spazio di dibattito che investe non solo questioni contrattuali, ma di riassetto dell’intero sistema educativo.
L’Unità 23.10.12