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"Il grido d'aiuto inascoltato delle vittime degli stalker", di Chiara Saraceno

Spaventata dall’insistente persecuzione da parte dell’ex fidanzato, dalle sue minacce ricorrenti per telefono, via messaggi, via Facebook, Lucia aveva chiesto aiuto alla polizia. Come era già successo a tante altre, aveva solo ricevuto qualche consiglio su come evitare che lui le telefonasse o mandasse messaggi. Ancora una volta, di fronte ad un aggressore, il consiglio era stato di cercare di evitare di farsi trovare. Nulla è stato fatto per fermare l’aggressore, per spaventarlo a sufficienza perché si fermasse e ci ripensasse. Ancora una volta, le minacce non sono state prese sul serio, derubricate a pure molestie, spiacevoli ma non pericolose. Sappiamo come è andata. Lucia si è salvata dalla morte, ma non da ferite gravi, solo perché la coraggiosa sorella Carmela la ha difesa con il suo corpo, facendosi ammazzare.
Il reato di stalking è stato riconosciuto nel codice penale italiano nel 2009. Ma la giurisprudenza è molto cauta nel riconoscerlo. Soprattutto, nelle more tra la denuncia e l’eventuale pronuncia del tribunale, il tempo gioca a sfavore della vittima. Nessuno pensa che ogni vittima di stalking debba entrare in un sistema di protezione simile a quello cui sono sottoposti i giudici di mafia, i testimoni contro i mafiosi, i ministri, e chiunque corra pericolo per la funzione pubblica che ricopre o le idee che manifesta. Ma bisognerà ben incominciare a riflettere sul fatto che essere una vittima di stalking per una donna comporta un effettivo rischio di vita, che non può mai essere sottovalutato, neppure quando la vittima non è (ancora)
pronta a sporgere querela. Non basta neppure un’ingiunzione a stare lontani, come testimoniano, ahimé, molti, troppi casi. Occorre che l’ingiunzione sia accompagnata da altre sanzioni in caso di non ottemperanza. Penso anche che sarebbe necessario integrarla con la richiesta di entrare in un percorso di rieducazione riflessiva.
L’assenza di aiuto da parte delle forze dell’ordine in questi casi appare tanto più grave e sorprendente alla luce degli eccessi di disponibilità ad intervenire quando sono in gioco conflitti tra adulti e bambini. È il caso dell’intervento delle forze dell’ordine a Cittadella, per eseguire un ordine del Tribunale dei minori in merito all’affidamento di un bambino conteso tra i due genitori separati. La polizia si è presentata per far valere il diritto del padre, negato sistematicamente dalla madre. Di fatto, l’intervento delle forze dell’ordine ha avuto come oggetto e vittima il bambino, portato via a forza nonostante le sue proteste. A differenza di quanto avviene spesso nei casi di stalking e di violenze famigliari, nessun poliziotto ha consigliato al padre di portare pazienza, di cercare un’altra via. Tanto meno lo ha fermato quando trascinava il figlio. Anzi, qualcuno lo ha aiutato. Proprio dove era meno opportuno, la capacità di intervenire delle forze dell’ordine si è dispiegata appieno.
La polizia è stata chiamata ed è intervenuta, pochi giorni dopo, anche in un altro caso, meno noto, che ha visto in una scuola elementare di un Comune veneto una maestra alle prese con l’aggressività di un
bambino affetto da disturbi psicologici e in situazione di disagio familiare. Incapace di contenerlo, la maestra e la direttrice scolastica hanno pensato bene di chiamare la polizia, invece che i servizi sociali da cui pure il bambino è seguito. Non è chiaro che cosa si aspettassero da un intervento della polizia in funzione di lupo cattivo. In effetti, le forze dell’ordine se ne sono andate senza far nulla, dopo aver preso atto della situazione. Ma il “bambino difficile” e i suoi compagni avranno capito che la polizia potrebbe essere usata contro di loro, se “non si comportano bene”.
In troppi casi ci si rivolge alle forze dell’ordine per risolvere conflitti nei rapporti interpersonali ed educativi, che avrebbero bisogno, non di una esibizione di muscoli, e neppure del ricorso alla forza della legge, ma di ascolto reciproco, tempo per sciogliere nodi difficili, appoggio esterno competente e accessibile. È quindi opportuno che le forze dell’ordine imparino a valutare caso per caso ed eventualmente dirottino sulle agenzie competenti le richieste improprie che ricevono, senza tentazioni di supplenza.
Proprio per questo, la sproporzione tra gli interventi (a favore dei diritti degli adulti) nei casi di conflitto tra adulti e bambini e i mancati interventi nei casi di stalking appare non solo inaccettabile, ma incomprensibile. Viene richiesta pazienza e capacità di autogestione del rischio proprio quando ne mancano le condizioni minime ed è in gioco la sopravvivenza stessa della vittima designata.

La Repubblica 22.10.12