Mi chiedo che Paese siamo diventati. Che Paese è quello in cui un ragazzo va a salutare la propria fidanzata prima di una partita a calcetto, scende di casa e viene massacrato da una sventagliata di mitra. Che Paese è quello in cui i media considerano questa, tutto sommato, una notizia che può esser data in coda alle altre, e non la notizia principale, da dare per prima. Una delle tante. Quel ragazzo si chiamava Pasquale Romano: lo chiamavano Lino, ma nessuno ricorda già più il suo nome.
Come è stato possibile assuefarsi a tutto questo? Forse si pensa che se accade lì, in terre di clan, è “normale”? È così? La democrazia nel mezzogiorno italiano è morta il 15 ottobre 2012, insieme a Lino Romano, e insieme a lui è stata seppellita ieri, dopo i funerali. Ed è morta non solo perché Lino è caduto innocente, ma perché per urlare che si trattava dell’ennesimo ragazzo innocente ucciso a sangue freddo e senza motivo, si è aspettato di capire a che famiglia appartenesse, chi fossero i suoi parenti . Ma perché – mi domando – se avesse avuto un lontano parente affiliato o coinvolto in fatti di camorra, sarebbe stato forse meno innocente?
MA È così che vincono le mafie: facendo credere che nessuno è innocente. Il messaggio che i clan vogliono far passare è che tutto appartiene a loro in maniera diretta o indiretta. Tutti fanno parte della loro logica, nessuno può dirsi immacolato. Tutti hanno un parente, un concittadino, un vicino di casa,
tutti hanno fatto un lavoro per loro o hanno un amico che fa parte del Sistema. E allora magari nascere a Cardito, crescere a Secondigliano, andare a casa della propria fidanzata a Marianella, tutto sommato, diventa, nella coscienza nazionale, una sorta di colpa. Il retropensiero è: “Beh, però è normale che se vivi lì queste cose possano accadere”.
E invece non è così, non è naturale ed è un’aberrazione ragionare in questo modo. Lino Romano era una persona per bene.
Era un lavoratore e veniva da una famiglia per bene. La maggior parte delle persone che vivono in questi territori sono persone per bene. Per bene potrà sembrare un’espressione superficiale, fin troppo semplice, ma non lo è. Per bene significa che si tratta di persone che lavorano duramente, che vivono con disciplina e soprattutto che resistono in territori dove è molto facile poter cedere a corruzioni e illegalità. Quindi per bene, lavorare per il bene, è l’espressione più appropriata per queste famiglie che si credono normali, ma che in realtà hanno una singolare tempra.
Che Paese è quello che non ha sentito il bisogno di andare in massa alla fiaccolata per Lino Romano? E il governo, perché non è andato ai funerali? Avrebbe dato un segnale fondamentale. In questi territori manca giustizia, istruzione, ordine pubblico, lavoro, impresa, l’ambiente è a pezzi: tutti i ministri avrebbero trovato cose da dire e, soprattutto, avrebbero avuto
molto, moltissimo da ascoltare. Non si trattava di fare visita o di ricevere i genitori di Lino Romano, si trattava di essere lì presenti perché in quelle terre, dalla prima grande faida che ha fatto centinaia di morti, nulla è cambiato. Nelle piazze di spaccio si sparava otto anni fa, nelle stesse piazze di spaccio si torna a sparare ora. Clan Di Lauro contro “scissionisti” otto anni fa, “scissionisti” contro i “girati” alleati ai Di Lauro ora.
Quattro governi dalla prima faida a oggi e nessuno ha avviato alcun tipo di riflessione sul mercato delle droghe, sul narcotraffico, su come strapparlo ai cartelli criminali. Tutti si sono sottratti sino a ora anche ai dibattiti avviati in altri Paesi. L’Italia in questo è latitante. Al massimo c’è stata militarizzazione, che nulla ha risolto. Bisogna esserci, invece, su quel territorio che sembra totalmente abbandonato. La crisi sta regalando ai cartelli criminali l’intero mezzogiorno italiano e si affaccia sulla totalità del paese. E non si può demandare tutto solo al coraggio e alla creatività delle associazioni di volontari.
Ripeto: che Paese siamo diventati? Che Paese è un Paese che non riesce nemmeno più a esprimere indignazione collettiva? Qualche mese fa, giugno, era successo lo stesso. A Casoria, un barista pulisce la strada davanti al suo bar. C’è una sparatoria e un proiettile lo colpisce. L’intero paese scende in piazza per dire che Andrea Nollino era una brava persona, che non c’entrava nulla. Un intero paese di lavoratori, disoccupati, persone normali, persone umili scende in piazza. C’era “Libera”, l’associazione di Don Ciotti, ma non politici, nessuno che si assumesse la responsabilità di dire: “Mai più”. Così come c’era “Libera” a fianco della famiglia Romano.
Come per Andrea Nollino, ora per Lino Romano valgono le stesse considerazioni. Nulla di più forte contro la crisi, per arginarla, esiste che ridare fiducia a un territorio e a chi lo abita. Nulla di peggio può essere fatto in tempo di crisi che nutrire la sensazione, che diventa certezza, che tutto sia inutile o per dirla con Corrado Alvaro, che “vivere onestamente sia inutile”.
Mi sono trovato a scrivere queste parole molte volte. Quando hanno ucciso Attilio Romanò, quando hanno ucciso Dario Scherillo, quando hanno ucciso Andrea Nollino e adesso che hanno ucciso Lino Romano. Quei territori sono di nuovo in guerra, la faida è riesplosa e terribili possono essere le conseguenze. Flussi di coca,
eroina, hashish si stanno riassestando e diffondendo come sempre da Scampia, ma ce ne accorgeremo quando i morti cadranno a decine, come la prima volta. È facile in Italia essere profetici quando dici cose che sono sotto gli occhi di tutti ma che nessuno (o quasi) vuole vedere.
Dalla prima faida a oggi si sono inserite le associazioni di volontariato uniche a denunciare negli anni cosa stava ancora accadendo ma nulla di davvero nuovo è iniziato. Quindi che si inizi ad ascoltare chi in quelle zone ci lavora e ne conosce i problemi. Tutti, ma proprio tutti, parlano della necessità di ripartire dalla scuola; sarebbe importante capire cosa è stato realmente fatto, e con quali fondi. L’attuale sottosegretario all’istruzione Marco Rossi Doria è stato il fondatore della Onlus “Maestri di strada”, chi più di lui in questo momento può fare da ponte tra la periferie di Napoli e questo governo in tema di istruzione?
Ma soprattutto, com’è possibile che a distanza di otto anni dalla faida in alcun modo si sia affrontato il discorso sul proibizionismo in materia di droghe? Scampia è il più grande mercato a cielo aperto del mondo occidentale. Camorra e ’ndrangheta si spartiscono il bottino del narcotraffico divenendo interlocutrici dei più importanti cartelli sudamericani, ma nel corso di questi anni non è stato fatto nulla per affrontare il problema dello spaccio, sperando, cinicamente, che la pax tra cartelli continuasse. O pensando, ancora più cinicamente, davanti alle stragi: bene che si ammazzino tra loro. Pensieri banali e qualunquisti. La pax mafiosa li rende più forti. E anche la guerra li rende più forti: per ogni morto di mafia se ne affilieranno altrettanti. Uno Stato che offre solo repressione favorisce, ignorandone le cause, situazioni che portano, come in questo caso, alla morte di un innocente. L’omicidio di Lino Romano ha degli esecutori materiali che devono esse trovati, processati e se ritenuti colpevoli condannati; ma il responsabile occulto di questo omicidio è una tirannica indifferenza sul sud e sul potere criminale. Il sud è il problema principale della nostra democrazia ma è anche la grande occasione e risorsa del nostro paese. Gli uffici del Comune di Napoli dovrebbero essere spostati a Scampia. Le sedi attuali, eleganti, centrali, pompose, non rispecchiano più l’anima della città. Il cuore di Napoli ora è nelle sue periferie, è lì che la città pulsa e muore.
Anni fa uccisero un ragazzo innocente vicino Napoli. Portarono via il corpo, rimase il sangue a terra. Ricordo che un uomo, forse un prete, si inginocchiò dinanzi a quel sangue, mischiato alla segatura. Come a cercare di chiedere scusa a quella vita che voleva scorrere e che invece era stata costretta a seccarsi nei trucioli. Poi arrivò un’auto. Diede un colpo di clacson. L’uomo fu costretto ad alzarsi. L’auto parcheggiò lì, sul sangue. Tutto finito.
La Repubblica 21.10.12