In fabbrica Lavoratori Fiat all’uscita dallo stabilimento di Pomigliano d’Arco, dove «qualsiasi ulteriore assunzione comporterebbe il contemporaneo ricorso alla cassa integrazione». La Corte d’Appello di Roma ha dato ragione alla Fiom sull’assunzione di 145 lavoratori iscritti al sindacato metalmeccanici Cgil nello stabilimento di Pomigliano D’Arco. Confermata la sentenza del 21 giugno del Tribunale che aveva condannato il Lingotto per discriminazioni contro la Fiom, disponendo che 145 lavoratori con la tessera del sindacato di Maurizio Landini venissero assunti nella fabbrica. Alla data della costituzione in giudizio alla fine di maggio, su 2.093 assunti da Fabbrica Italia Pomigliano, nessuno risultava iscritto alla Fiom. Ad agosto la Corte d’Appello aveva giudicato «inammissibile» la richiesta della Fiat di sospendere l’ordinanza di assunzione per i 145 iscritti alla Fiom.
Fiat ha subito annunciato che ricorrerà in Cassazione e che si riserva ogni tipo di iniziativa legale. «Il numero attuale dei dipendenti dello stabilimento di Pomigliano è più che adeguato», ha detto ieri un portavoce del gruppo, facendo riferimento a quanto dichiarato il 30 giugno sulla sentenza di primo grado. «Le considerazioni di allora risultano ancor più valide oggi – ha aggiunto alla luce del fatto che l’azienda è già stata costretta a far ricorso negli ultimi mesi alla cassa integrazione per un totale di 20 giorni lavorativi, a causa della situazione del mercato automobilistico europeo».
Ecco cosa sostenne allora il Lingotto: «Qualsiasi ulteriore assunzione comporterebbe il contemporaneo ricorso alla cassa integrazione, se non a procedure di mobilità, nel caso in cui la cassa integrazione non fosse disponibile, per un numero di dipendenti corrispondente a quello dei nuovi assunti, inclusi probabilmente alcuni provenienti dal gruppo dei 145 appena assunti in esecuzione all’ordinanza del Tribunale». In poche parole: per ogni “nuovo” assunto imposto dal tribunale che entra, uno “vecchio” esce. La polemica è dunque destinata a montare.
La sentenza della Corte d’Appello ha scatenato una pioggia di dichiarazioni favorevoli da parte dei partiti di sinistra e centro sinistra, oltre alla soddisfazione di Cgil e Fiom. «E’ una buona notizia», ha chiosato la leader Cgil, Susanna Camusso. «Una vittoria della democrazia», ha aggiunto Landini, segretario della Fiom, che ricordando che restano da riassorbire nello stabilimento circa 2.500 lavoratori, ha lanciato una proposta: «Questo è il momento che tutti i lavoratori di Pomigliano rientrino e, se ci sono problemi, noi siamo pronti a contratti di solidarietà».
Secondo Sergio Cofferati, oggi europarlamentare Pd, «la sentenza è molto positiva e pone fine a un’inaccettabile vicenda», mentre per Cesare Damiano, capogruppo Pd nella commissione Lavoro della Camera, «ora bisogna normalizzare le relazioni sindacali». Nichi Vendola ha invitato «gli altri candidati alle primarie del centrosinistra, Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi e Laura Puppato, ad accompagnare il ritorno in fabbrica dei lavoratori di Pomigliano». Perplesso il segretario della Fim di Napoli, Giuseppe Terracciano: «Non spetta a me discutere una sentenza, ma sicuramente quella della Corte d’Appello creerà dei problemi alla Fiom e a tutti i lavoratori in cassa integrazione, così come quelli già assunti nella newco». Contrario al verdetto l’ex ministro Maurizio Sacconi (Pdl): «Una sentenza angosciante che impone alla Fiat operai comunisti. Da oggi impresa e lavoro sono meno liberi».
Ieri il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, ha annunciato che il sindacato vedrà Sergio Marchionne martedì 30 per esaminare il programma che Fiat intende portare avanti fabbrica per fabbrica». La riunione avverrà nel tardo pomeriggio dopo il Cda sui conti del terzo trimestre.
La Stampa 20.10.12
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“Una sentenza importante”, di Nicola Cacace
LA SENTENZA DELLA CORTE D’APPELLO DI ROMA CHE ORDINA ALLA FIAT DI CORREGGERE la discriminazione anti Cgil assumendo i 145 operai della Fiom deliberatamente esclusi dalle assunzioni di Pomigliano, è un segnale importante. La decisione non è inaspettata: non si capisce come la Fiat avesse pensato di convincere i giudici che la sua decisione non aveva carattere antisindacale discriminatorio. Ma non è usuale trattandosi di Fiat, un’azienda che da più di 100 anni fa e disfa a suo piacimento le più «alte» decisioni, incamerando profitti negli anni buoni e cercando di scaricarli ad altri Stato, comunità locali, fornitori, clienti, territorio nei periodi di magra. Da un saggio del 2002, «Non Fiat», di Loris Campetti, (Cooper Castellucci), si apprende che già nel lontano 1930, grazie ad un convincente intervento del vecchio senatore Agnelli precipitatosi a Roma, in un mese il Parlamento vara la Legge Gazzera, che recitava: «sono vietati nuovi impianti di fabbriche o ampliamenti senza previo consenso del ministro della guerra». Una legge che in pratica blocca le avanzate trattative d’acquisto della Isotta Fraschini, piccola ma prestigiosa fabbrica di auto dell’epoca, da parte della Ford, che aveva già prenotato un terreno presso Livorno per industrializzare la produzione delle ammiratissime macchine italiane. Il fatto si è ripetuto 56 anni dopo, nel 1986, ancora una volta a danno della Ford, quando governi (e sindacati) bloccarono l’acquisto dell’Alfa Romeo da parte della grande azienda di Detroit, regalandola alla Fiat che la sta seppellendo.
Insomma la Fiat si comporta da anni nel nostro e suo Paese (ma fino a quando sarà anche suo?) come uno Stato nello Stato coi bei risultati sotto gli occhi di tutti: l’unico Paese europeo con un solo grande produttore nazionale, l’ultimo Paese europeo produttore di auto, con meno di 400mila pezzi in un mercato nazionale dove se ne vendono 1,5-2 milioni l’anno, l’unico grande mercato dell’auto alimentato al 70% da marche straniere e con tutti gli Stakeholders, parti interessate oltre agli azionisti al successo di una impresa, che non sono solo esclusi da ogni possibilità di difendere i loro legittimi interessi quanto talvolta anche delegittimati nelle loro richieste. Come quando il premier Monti, ricevendo a palazzo Chigi Marchionne ed Elkann, amministratore e presidente della Fiat, ebbe a sposare interamente le loro tesi di «piena libertà di investire dove più conveniva all’azienda», comportandosi più come un convinto liberista che come presidente del Consiglio della Repubblica. Allontanandosi in questo modo sia dalle più moderne teorie sulla responsabilità dell’impresa (soprattutto della grande impresa) che è responsabilità economica verso gli azionisti ma è anche responsabilità sociale verso tutti, sia dal comune comportamento che altri capi di governo da Obama a Merkel, da Sarkozy ad Hollande tengono con le multinazionali di casa loro quando devono difendere gli interessi nazionali. Chi non ricorda i tremendi rabbuffi di Obama allo scomparso boss di Microsoft Bill Gates, colpevole di trasferire in Cina tutte le sue produzioni, o della Merkel quando Marchionne tentò, maldestramente, di mettere le mani sulla Opel o di Sarkozy quando la Peugeot voleva delocalizzare in Serbia? Niente di tutto questo ha fatto il nostro presidente del Consiglio, tenendo fede alla ben nota fama di convinto liberista e antikeynesiano , come ci ha ricordato tra gli altri, l’ultimo numero dell’Economist mai smentito. Il premier non ha mostrato di seguire in questo neanche le raccomandazioni del suo vescovo Benedetto XVI che nell’ultima Enciclica, Charitas in Veritate, auspica la responsabilità sociale dell’impresa e condanna apertamente «le delocalizzazioni fatte senza attenzione agli interessi di lavoratori, fornitori e territorio». I giudici di Roma sono stati più attenti. Basterà a salvare la più grande azienda automobilistica d’Italia? Speriamo.
L’Unità 20.10.12