La politica è come un morto che afferra il vivo dell’Italia, ha scritto Galli della Loggia («Corriere della Sera», 16 ottobre). Da vent’anni ci siamo allontanati dalla nostra storia, recente e anche lontana, vegetando in un presente che non ricorda e non progetta, privo di visione. Questa morte si materializza anche nel corpo del Paese, con frane e terremoti, monumenti che crollano e il volto della Patria — il paesaggio — sfigurato, mancando ogni argine al cemento (il ministro dell’Agricoltura ha proposto un’ottima legge al riguardo: è prevista una corsia preferenziale?).
Nei tagli sempre più orizzontali e pesanti l’articolo 9 della Costituzione mai vale per creare quell’eccezione culturale in cui consiste la natura storica della Penisola, epicentro di pensieri e di opere di valore universale per due millenni e mezzo. Questa nostra modernità è caduta prima nel vuoto di un’ignoranza elogiata e poi nel pieno, ma troppo esile, di uno specialismo autorevole ma privo di una prospettiva oltre l’economia. La causa sta forse in un’idea sbagliata di progresso.
Nelle scienze della natura le scoperte si elidono, per cui si superano a vicenda. Ma così non è nelle scienze storiche. Le domande di Platone e di Vico appaiono ormai insulse? Omero è stato superato dal cinema di Hollywood? La storia rivive in un presente che sappia fondere l’orizzonte tramontato con il proprio, in un dialogo ininterrotto, in cui l’oggi prepara il domani, pascendosi dei secoli trascorsi.
Abbiamo obliterato le tradizioni, nel pregiudizio per il quale ogni radice deve essere recisa per librarsi nella vita, e così siamo precipitati nel nulla attuale. La cultura è per noi come il gioco di animali e bambini: una funzione centrale dell’essere, che si interpone tra noi e la vita ordinaria, funzione di cui è rarissimo sentire parlare ai più alti livelli istituzionali e mediatici, dediti alla finanza. Per questa ragione avevo proposto con Galli della Loggia un museo sintetico della storia d’Italia: dobbiamo pur avere un punto da dove cominciare a rammendare l’abito mentale lacerato della nazione, nel senso di uno sviluppo produttivo ordinario intrecciato a uno sviluppo umano straordinario, fatto di istruzione, ricerca, cultura e produttività creativa. Ma per ritrovare chi siamo e cosa potremmo essere nel globo dobbiamo smettere di considerare unicamente il Pil, tornando alla politica nel più alto senso della parola. Se non risuscitiamo nell’anima i nostri grandi, antichi e moderni, moriremo a una vita piena anche noi.
Intanto di male in peggio per il ministero dei Beni culturali. Sono scomparsi i Comitati tecnico-scientifici, per risparmiare 10.000 euro di missioni. L’anno prossimo rischiamo di avere fondi ulteriormente dimezzati: solo 86 milioni realmente disponibili per mantenere il patrimonio di storia e d’arte della nazione (i tagli cadono per intero sui Beni culturali, per risparmiare lo spettacolo). Una trentina di dirigenti rischiano di scomparire (nonostante il rapporto 1 a 150), per cui le pratiche paesaggistiche non potranno essere più evase (con organico inadeguato il silenzio-assenso diventa pericolosissimo). Neppure sono in vista i vantaggi fiscali più volte richiesti. A questo punto la spesa rappresentata dal ministero appare inutile: tanto varrebbe eliminarlo. Lo smarrimento da questo punto di vista è completo.
Il Corriere della Sera 19.10.12