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"L'occasione mancata", di Massimo Giannini

Nell’Italia dei Berlusconi e dei Formigoni, nel Paese dei Belsito e dei Fiorito, una legge contro la corruzione che vede la luce quasi vent’anni dopo Tangentopoli è un evento storico. E Monti, che sulla legge ci mette la faccia e la firma, si assume per questo una responsabilità rilevante. Dopo mesi di pretestuosa melina parlamentare, di inerzia «comprensibile ma non scusabile di alcune parti politiche», di trattative sopra e sotto il banco, il governo rompe gli indugi con il voto di fiducia al Senato, passato con un plebiscito bulgaro: 257 sì, e solo 7 no. Ci sarebbe da festeggiare. Ma la festa ha un gusto un po’ amaro.
Il ministro della Giustizia tuona: «Questa legge non è carta straccia». Ha ragione: questa legge, semmai, è un pannicello caldo. Conforta, ma non cura. Lenisce, ma non risolve. In qualche caso, addirittura, peggiora il male che vorrebbe estirpare.
Nessuno nega il segnale politico. Dopo il devastante lavacro di Mani Pulite, e dopo diciassette anni di cultura dell’impunità scientificamente inoculata nelle vene del Paese dalla macchina del potere berlusconiano, il testo della Severino è il primo tentativo di rialzare in qualche modo la bandiera della legalità. Di rimettere mano a una strumentazione normativa logora, contraddittoria e comunque inadeguata ad arginare la nuova ondata di scandali che dalla Lombardia alla Sicilia sta ammorbando la democrazia e soffocando l’economia. La corruzione «vale» 62 miliardi di giro d’affari, «pesa» per il 2,4% sul reddito nazionale e per il 3% sul fatturato delle imprese, riduce del 16% il volume degli investimenti esteri. Se si rimuovesse la metastasi del malaffare, il Pil italiano potrebbe crescere del 4% in 5 anni. Varare una legge che almeno sulla carta si prefigge questo obiettivo è già di per sé un atto di discontinuità con il drammatico «passato che non passa».
Ma i motivi di soddisfazione finiscono qui. Se dal politico si passa al giuridico, e se dal simbolico si passa al pratico, è purtroppo facile dimostrare che questa legge non è affatto una grande svolta, ma una gigantesca occasione mancata. Innanzi tutto, per quello che il testo «non contiene» (come ieri ha giustamente ricordato su questo giornale Barbara Spinelli). Il falso in bilancio, depenalizzato nel 2002 dal Cavaliere. Il reato di «auto-riciclaggio», invocato inutilmente dalla Ue, dalla Banca d’Italia e dal procuratore antimafia Piero Grasso. Il reato di «voto di scambio», utilizzato a man bassa da governatori e assessori, e non più a suon di denaro ma di appalti e assunzioni, ville e vacanze. E poi la sanzione dell’interdizione automatica dai pubblici uffici per i politici concussori, che viene inopinatamente cancellata dal codice e che rischia di precipitarci dalla vetta delle «liste pulite» all’abisso delle «poltrone sporche».
Ma questa legge diventa addirittura pericolosa per quello che invece «contiene». Al di là degli obiettivi passi avanti sulle nuove figure di reato (traffico di influenze, corruzione tra privati) nel caso della concussione la
marcia indietro è davvero inquietante. Qui, paradossalmente, il provvedimento del governo non solo non riduce il danno, ma lo produce. Il reato finora disciplinato dall’articolo 317 del codice penale viene spacchettato in due fattispecie diverse. Per uno (la «corruzione per costrizione», ipotesi quanto meno fantasiosa perché in genere nessuno si fa corrompere con la pistola alla tempia) le pene restano immutate a 12 anni nel massimo e si inaspriscono da 3 a 4 anni nel minimo. Per l’altro (la «indebita induzione», ipotesi classica di chi ottiene favori o «utilità» abusando della propria posizione di pubblico ufficiale) le pene si abbattono da 12 a 8 anni. Questa scelta, insensata e dissennata, incide sui tempi di prescrizione, che scendono da 15 a 10 anni. E può tradursi in un vero e proprio colpo di spugna per molti processi, tuttora pendenti di fronte ai tribunali della Repubblica.
Lo stesso ministero della Giustizia stima che i processi per concussione, giunti al traguardo della sentenza definitiva in Cassazione prima della mannaia della prescrizione, sono stati 109 nel 2009, 121 nel 2010, 142 nel 2001. Allo stato attuale, ne risultano pendenti 75. Con la nuova legge almeno la metà di questi potrebbe già decadere. E a saltare potrebbero essere i processi più illustri, con imputati eccellenti e bipartisan.
Da quello di Berlusconi per il caso Ruby, la «nipote di Mubarak», a quello di Penati per le aree ex Falck. Da quello di Ottaviano del Turco a quello di Clemente Mastella. Da quello di Alfonso Papa a quello di Alberto Tedesco. Perché questi processi meritano un trattamento di favore rispetto a tutti gli altri, resta un arcano che nessuno ha il coraggio di spiegare.
La Severino, in aula, si difende dalle critiche. Parla di un «equilibrio delle pene» che va sempre rispettato, perché «non ci devono essere eccessi né in basso né in alto». Parla di pene giuste che si devono costruire «tenendo conto dei valori da tutelare». Ma proprio questo è il punto debole del Guardasigilli. La concussione (come dimostrano le cronache giudiziarie di questi mesi e di questi giorni) è forse il reato più grave tra quelli compiuti contro la pubblica amministrazione. Perché merita una diminuzione della pena, rispetto alle norme già in vigore? Dov’è l’equilibrio? Quello che il ministro considererebbe evidentemente un «eccesso» (il mantenimento della pena massima a 12 anni anche per l’indebita induzione, oltre che per la concussione per costrizione)
sarebbe fondamentale non solo e non tanto per punire più severamente chi commette il reato, ma soprattutto per mantenere a 15 anni i tempi della prescrizione, e quindi per evitare che saltino i relativi processi ancora in corso. Non è forse questo un «valore da tutelare», in un Paese che ha conosciuto le leggi ad personam di Berlusconi (a partire dalla ex Cirielli, utile a lui proprio per dimezzare le prescrizioni), e che per questo ha subito diversi richiami dall’Europa e dall’Ocse?
Il nodo è giuridico. Ma con tutta evidenza, è prima di tutto politico. Il tira e molla sulla legge anti-corruzione, in corso ormai da quasi due anni, nasconde un non detto che chiama in causa tutti i partiti, e ora anche il governo. Il patto finale, rappresentato da questa legge, conviene a vario titolo a tutti i «contraenti». Gli stessi che ora, a destra e a sinistra, si affrettano a dire che il testo va approvato, ma alcune norme andranno riviste, lo hanno di fatto «blindato» nella parte che gli stava più a cuore, litigando (o fingendo di litigare) su tutto il resto. La Severino respinge i sospetti, ed è legittimo che lo faccia. Grida «nessuno dica che questa legge è frutto di inciuci». Ne prendiamo atto: non ci sono stati «inciuci » negoziati a tavolino (anche se il Guardasigilli in queste settimane di confronto con i partiti deve aver visto l’inferno, altrimenti non aggiungerebbe un sibillino «bisogna passare qui dentro per capire la fatica che c’è dietro ad ogni provvedimento»). Diciamo allora che il risultato finale è probabilmente il frutto di una mutua e forse anche tacita convenienza. E dirlo non è fare i «grilli parlanti», ma semplicemente gli onesti cronisti. Non tutto è ancora perduto, comunque. Il disegno di legge torna ora alla Camera. Con un rigurgito di coraggio e di consapevolezza, magari supportato da un parere del Csm che stranamente questa volta tarda troppo a venire, il governo potrebbe ancora correggere queste storture. Potrebbe ancora riempire di misure coerenti e cogenti quello che, per adesso, resta solo un passaggio significativo, ma non decisivo, nella lotta alla corruzione. «Siamo un governo di persone oneste, non abbiamo varato queste norme perché siamo amici degli amici dei corrotti»: nessuno può dubitare delle parole del ministro della Giustizia, che riflettono al meglio quelle più volte pronunciate dal presidente del Consiglio. Ma proprio per questo ci aspettiamo qualcosa di più. Proprio per questo è nato l’appello e poi la raccolta delle oltre 300 mila firme lanciata da
Repubblica.
Una legge diversa. Una legge della quale «l’Italia possa andare davvero orgogliosa». Questa, obiettivamente, non lo è.

La Repubblica 18.10.12