La candidatura del Pa a governare sta acquistando forza. Ma più ci presentiamo al Paese come la sua possibile guida più diventa acuta l’esigenza (per me, almeno) di poggiarla su una base più forte, culturale, fondata non solo sulla contingenza politica ma sullo sforzo di cominciare a offrire qualche risposta ai grandi quesiti della nuova storia europea in cui siamo immersi. È ormai difficilmente contestabile che il Pd rappresenta il perno della sola alleanza di governo possibile, quello tra la sinistra democratica e un più vasto mondo moderato. Ma basta questo? La base dei vecchi schieramenti si sta sfarinando. È con forze, interessi e domande più profonde che ci dobbiamo confrontare. E, al fondo, la questione che io comincerei a porre come fondamento della nostra candidatura al governo dell’Italia è la necessità di uscire dalla Grande crisi che poi, come sappiamo, è molto di più di una crisi economica.
Il tema riguarda un «ordine» globale, che ha creato una società della super ricchezza e della super-miseria la quale ha emarginato il lavoro e i ceti medi. Per cui uscirne non è semplice. Comporta la necessità di rimettere in discussione qualcosa degli assetti anche sociali che sono alla sua base. E, quindi, richiede di allungare lo sguardo oltre l’emergenza, misurandosi con quello che a me appare ormai il rischio di una lunga decadenza di questo nostro Paese. Di che si tratta? Non delle solite cose. I fatti sono impressionanti, a cominciare dalla corruzione dilagante che è anche la spia di un vuoto spaventoso di classi dirigenti. È evidente la necessità vitale di un grande rinnovamento di persone, oltre che di idee. Ma il vergognoso linciaggio di D’Alema non è questo. Mi ferisce e voglio dirlo. Vedo in esso anche il tentativo di «rottamare» una delle cose più rispettabili di questo Paese che è la lunga, ininterrotta storia tormentata della sinistra. Una cosa è certa. Così non si riforma niente e non si forma nessuna classe dirigente.
Ritorno così al mio articolo che nasce, come sempre, dall’assillo di alzare il livello della discussione e contribuire a darci una visione più avanzata delle cose. La nostra crisi è così grave perché è parte integrante di una vicenda mondiale che ha scoperchiato tutte le nostre debolezze storiche. Dunque, questa vicenda (la grande svolta liberista e la finanziarizzazione dell’economia con tutto ciò che ha comportato come rottura del vecchio compromesso democratico e sociale) non è un fenomeno che ci è arrivato addosso dall’esterno. Insomma, noi e il mondo resta la chiave di lettura della crisi italiana. Noi e il mondo, sia per capire la decadenza di una nazione, ma sia per rendersi conto che anche tutte le nostre prospettive stanno nel rapporto col mondo. Stanno cioè nella lotta per una nuova Europa, perché solo a questo livello è possibile pensare di dare una nuova base sociale al rilancio dello sviluppo nel mondo attuale. È per la consapevolezza di questo nodo profondo che a me sembra molto fuorviante dividere il Pd tra «montiani» e «anti-montiani». È veramente una disputa vana se guardiamo alle grandi sfide che incombono.
Non capisco che idea ha dell’Italia chi considera la lotta contro il governo Monti come il discrimine tra destra e sinistra. Tutto ci dice che il problema di risanare l’insieme dell’organismo italiano (Stato e società) è problema nostro, ineludibile. Non è una emergenza che si chiude con un nuovo governo. È la condizione per rimettere con i piedi per terra tutta la lotta delle forze di progresso. I vecchi conflitti sociali del Novecento non sono affatto scomparsi. Ma qual è, oggi, il senso del riformismo nell’Italia del 2000 se esso non si pone il problema di liberare le forze produttive (si, le forze produttive) dal peso schiacciante delle rendite? Quali efficienti servizi collettivi ci sono dietro quell’insostenibile 51 per cento di spesa pubblica se non una serie di grandi rapine a spese del lavoro e della povera gente? E non sto a ricordare le speculazioni finanziarie, gli sprechi e le distorsioni che da venti anni hanno bloccato lo sviluppo del Paese spingendolo verso un destino di decadenza. Guardiamo al Mezzogiorno e misuriamo l’enormità del disastro fatto in questi anni dal cosiddetto governo del Nord (Berlusconi e Bossi insieme). Ricostruire la fisionomia dell’Italia. Questo è il compito nostro, non di Monti. Non affrontarlo significherebbe rinunciare alla missione stessa del Pd, che è quella di ridare al mondo del lavoro il senso della sua funzione nazionale e quello di restituire una cittadinanza alle classi subalterne e una rinnovata idea di patto civile agli italiani.
Detto questo, anche l’idea di fare dell’agenda dei «professori» l’orizzonte dell’Italia di domani a me sembra nasca da una visione piccola e subalterna rispetto ai problemi e ai compiti che spettano alle forze progressiste europee. Non scherziamo. La più grande crisi mondiale del dopoguerra non è scoppiata per le eccessive pretese dei sindacati né per l’avidità dei banchieri. Non voglio ritornare sulle stesse analisi che hanno già detto tutto. Richiamo solo l’attenzione sul peso che ebbe la rottura degli equilibri sociali che stavano alla base del compromesso tra il capitalismo e l’economia. E quindi sul fatto che, oggi, non si esce dalla crisi senza affrontare la questione di un nuovo modello sociale, senza un rapporto diverso tra società, economia e politica, senza dar voce non solo al lavoro ma a una nuova umanità.
Il passato non tornerà più. Ma è bene non dimenticarlo. In sostanza fu l’arrivo sulla scena di nuovi popoli con tutto il loro carico di bisogni e di domande che rese insostenibili gli equilibri e i compromessi sociali su cui si reggevano fino a 30-40 anni fa le ricche società occidentali. Erano società molto costose perché in esse la crescita della ricchezza privata e dei consumi opulenti conviveva con l’espansione del Welfare e un grande peso dei poteri sindacali e dei diritti del mondo del lavoro. Ma adesso arrivavano i nuovi soggetti della mondializzazione, e quindi il problema di non ridistribuzione della ricchezza mondiale. Si giungeva così a un bivio, si imponevano nuove scelte non solo economiche ma sociali di fondo. Sulla carta c’era anche l’ipotesi (non dimentichiamolo, perché in modi del tutto nuovi io penso che questa è la questione che si ripresenterà nel futuro) di andare avanti, verso società meno costose perché più egualitarie, con consumi meno opulenti ma più ricchi, anche culturalmente e moralmente, con grandi innovazioni nel campo della produzione di beni sociali, culturali, ambientali. Oppure sterzare a destra. L’altro corno del dilemma. È quanto fecero le oligarchie dominanti. Ruppero gli accordi di Bretton Woods su cui si era basata nel dopoguerra la costruzione di assetti politici e sociali più democratici, insieme con una economia più regolata e l’allocazione mondiale dei capitali più controllati. La finanziarizzazione senza regole fornì anche carburante allo sviluppo delle nuove economie. Ma in compenso il costo irrisorio della mano d’opera di quei Paesi venne usato come un grande «esercito di riserva» che scaricava sulla civiltà del lavoro europea, sui diritti democratici e sui vecchi ceti medi il compito di stringere la cinta a fronte dei nuovi imperativi della competitività. Questo sistema è arrivato al termine della corsa. Come se ne esce? Per piacere, non ditemi che al di là dell’agenda Monti non si può andare. Con tutto il rispetto per il professore e tutto l’augurio di lavorare ancora insieme, egli non rappresenta la misura di tutte le cose.
L’Unità 18.10.12
Pubblicato il 18 Ottobre 2012