Da anni, anzi da decenni, il diritto del lavoro è stato inquinato da una legislazione confusa, arrembante ed emergenziale. A partire in specie dal libro bianco del governo Berlusconi del 2001 ad ogni cambio di governo e di legislatura si sono succedute miriadi di interventi sovrapposti l’uno all’altro, talora modificativi tal’altra integrativi, tutti naturalmente emanati dichiarando la buona intenzione di «semplificare», «alleggerire», «attivare» il mercato del lavoro. L’esito è sotto gli occhi di tutti. Si è costruita così una normativa pletorica, farraginosa, a tratti incomprensibile, caratterizzata da una serie innumerevole di contratti atipici di tipo precario che hanno avuto un solo esito concreto: diffondere una cattiva cultura d’impresa, dare l’idea che i problemi della competitività potessero tutti scaricarsi sul lavoro, riducendo il costo del lavoro e i diritti dei lavoratori. I risultati, sul piano macro, sono altrettanto evidenti: il tasso di competitività si è abbassato, la produttività è calata, in termini direttamente proporzionali all’incremento della precarietà del lavoro, l’industria e l’economia complessiva declinano. Il caso del contratto a termine costituisce la rappresentazione più eloquente di questo paradossale caos normativo: prima il contratto a termine è stato totalmente liberalizzato nel 2001 dal governo Berlusconi, poi sono state introdotte alcune limitazioni dal governo Prodi nel 2007, poi si è tornati a una nuova liberalizzazione col governo Berlusconi dal 2008 in poi. Ora il governo Monti con la riforma del mercato del lavoro ha introdotto un ulteriore cambiamento: per un verso il contratto a termine è di nuovo liberalizzato, per le prime assunzioni, con l’abolizione della necessità di motivare le ragioni della assunzione a termine, salvo restringerne poi l’utilizzo con una serie di norme in materia di tempi di rinnovo, du rata del periodo oltre che di costi contributivi. Questa poi è solo una delle tante modifiche, di incerta e complessa interpretazione, introdotte dalla riforma Monti-Fornero: ce ne sono molte altre in tema di Cococo, partite Iva, lavoratori stagionali, mini-Arspi e ammortizzatori sociali in genere che stanno ponendo enormi problemi applicativi. Per tacere delle modifiche introdotte all’articolo 18 dello Statuto in tema di licenziamenti, che sono un vero e proprio rompicapo, specie sul piano processuale. E senza nominare la questione dei cosiddetti «esodati», che prima o poi dovranno chiamarsi disoccupati tout court, privi di ogni sostegno del reddito. È comprensibile quindi che il ministro Fornero, nel forum pubblicato ieri sul Sole 24 ore, faccia su questo ed altro una riflessione autocritica, e annunci misure correttive. La riflessione autocritica dovrebbe tuttavia essere più ampia. È stato un errore mettere mano, nel pieno di una crisi dai caratteri e dalle proporzioni inedite, a una maxi-riforma composta da migliaia di commi, spesso soggetti a dubbie interpretazioni, e comunque destinati per lo più a rimanere sulla carta, solo al fine di dimostrare (a chi? a quella Europa che dobbiamo cambiare, dato che così com’è non funziona più?) che si poteva finalmente esibilre lo scalpo dell’art. 18 dello Statuto. Ora il ministro annuncia che intende promuovere un ennesimo decreto correttivo, sui tempi del rinnovo dei contratti a termine ed altro. Faccia pure. Non sarà questo che risolverà il problema delle tante incertezze applicative della sua riforma. È da sperare invece che dei tanti errori commessi fin qui si faccia tesoro. Dando vita nella prossima legislatura a una correzione di fondo della legislazione del lavoro, ad un mutamento di paradigma, fondato sull’idea che una chiara definizione dei diritti e dei doveri dei lavoratori e la riaffermazione della qualità del lavoro sono la condizione imprescindibile di uno sviluppo compatibile e sensato.
L’Unità 17.10.12