C’è differenza tra rinnovamento e rottamazione. Ogni leader politico non può mutare i modelli dell’organizzazione che guida senza imporre anche un visibile cambiamento di uomini. Nuove culture annunciano sempre l’apparizione di diversi gruppi dirigenti che si cementano nel cuore di una lotta aperta. È nella battaglia delle idee che i portatori della discontinuità hanno il modo di farsi apprezzare. Non è così quando l’immissione di nuove leve di comando non è associata a una cesura culturale ma a un’operazione punitiva e di marketing.
In questo caso l’immissione di nuove leve non comporta affatto un’apprezzabile innovazione. In fondo nel 2008 non mancò un elevato ricambio, la giostra delle candidature nuove non introdusse però un salto nella qualità. Ciò perché la nomina ispirata ai leggeri canoni della comunicazione non era il risultato di una esplicita maturazione sul duro campo dell’azione politica di altre classi dirigenti.
Il Pd ha bisogno di un profondo rinnovamento che accompagni il riconoscimento collettivo del merito acquisito nella lotta politica da giovani dirigenti, amministratori, militanti. La rottamazione è però un’altra cosa. È il contrario della guerra delle idee, è la distruzione brutale di ogni storia comune che un partito custodisce con cura. La rottamazione è una ginnastica che prescinde dalle esperienze, dalle competenze, dalle storie diverse che arricchiscono una comunità politica. È solo una cattiva igiene raccomandata da chi rivendica la leadership ma non ha idee per convincere gli altri. Il termine stesso di rottamazione ha una ascendenza fascistoide che non per nulla scalda Dell’Utri e Santanchè, stuzzicati dalla mitologia della giovinezza, primavera di bellezza (bellezza, un altro termine caro agli atleti della rottamazione).
Quando non si dispone di una cultura politica nuova, è più comodo ricorrere a una spruzzatina di liberismo sempre utile per le èlite (quelle che regalano la copertura mediatica e il denaro necessario all’impresa) e a una dose massiccia di populismo necessario per incantare la massa (quella di ogni colore che alla sola idea di un repulisti violento mostra un rapimento mistico). La rottamazione è un arnese del populismo contemporaneo che scommette sull’istintualità irriflessiva del pubblico e sull’oblio della ragione critica: in nessuna democrazia si ingiuria la propria classe dirigente, per affidare la continuità della Repubblica a Bossi, Berlusconi, Cicchitto, Casini, Fini, La Russa, Gasparri, Tremonti. Il significato ideologico della rottamazione (nei partiti stalinisti si chiamava epurazione, la sostanza non cambia) è evidente: nel nome della morte alla nomenclatura si cerca di rimuovere con azioni di forza le culture, le storie della plurale sinistra italiana (post-comunitsa, prodiana, laico-socialista, popolare).
La rottamazione è una volgare arma contundente. La maneggia soltanto chi gioca sull’equivoco di stare un po’ dentro un organismo (al punto da rivendicarne il marchio che gli serve per andare al governo ma non di sporcarsi le mani partecipando alle discussioni nei gruppi dirigenti) e molto fuori (ai limiti della proclamazione di una alterità irriducibile rispetto alla politica). È tipico della mentalità populista operare ambiguamente all’interno di una organizzazione come se si abitasse però all’esterno di essa.
Il rottamatore è un politicante astuto, con una controversa esperienza nell’amministrazione della città (la soave neve fiorentina condannò alla paralisi mezza penisola!). Non ha nulla di significativo da dire, oltre la recitazione soporifera nei teatri d’Italia sul merito e la bellezza. Per questo ridesta dal sonno solo quando promette la caccia grossa ai dirigenti più prestigiosi. Confida, il rottamatore, sulla irreparabile decadenza della cultura politica diffusa, sulla volontà di oblio, e sul desiderio di punizione che poi è il sentimento più elementare e anche più facile da produrre in laboratorio. Non ci vuole granché a ottenere l’applauso scrosciante promettendo una demolizione dei dirigenti.
Il rottamatore strizza l’occhio al rozzo spirito di vendetta che è distribuito nei bassifondi del Paese ma non contribuisce certo a rinnovare con la civiltà della politica. Di solito proprio l’apparato peggiore e la nomenclatura più scadente sono i più lesti, in un impeto di eterno trasformismo, a salire sul camper del rottamatore. Un vero rinnovamento esige la promozione di nuove classi dirigenti che nella lotta definiscono un percorso ideale comune. Con le primarie o salta tutto in aria, come propone chi sogna il big bang (il suicidio di un partito, che non può esplodere, senza negare la propria ragion d’essere) oppure, proprio grazie alla sconfitta del populismo interno, potrà nascere un partito vero con radici solide, tali da reggere una non più rinviabile rottamazione dei rottamatori. In tempi di cinici arrampicatori senza qualità, il rispetto è la prima virtù politica, preliminare in ogni conflitto, anche il più aspro.
l’Unità 16.10.12