La caduta o il rallentamento del reddito e della produzione che si stanno verificando in tutto il mondo sono tali che ormai la parola «recessione» non appare più adeguata a descrivere con chiarezza i fenomeni in atto Per alcuni Paesi l’intensità del decremento (in Italia sommando il 2012 e il 2013 si arriverà a superare il -3%) di per sé rende più appropriata la parola «depressione». Ma in generale la durata della crisi, la sua prevedibile estensione se perdura l’approccio dell’austerità «a tutti i costi», fanno pensare che siamo di fronte a una vera e propria rottura nelle traiettorie di sviluppo. Le pratiche monetarie promesse da Draghi per la Bce – tuttavia subordinate a una condizionalità che potrebbe rivelarsi un capestro per i Paesi richiedenti – e quelle ancor più «rivoluzionarie» praticate da Bernanke per la Fed, per quanto «non convenzionali», non possono essere sufficienti a far intraprendere all’economia mondiale una nuova rotta. Specie se l’Europa rimane prigioniera dell’austerità restrittiva e deflazionistica imposta dalla Merkel e contrastata da Hollande e a livello globale la leadership più all’altezza della situazione rimane quella di Obama (né si osa pensare a cosa accadrebbe se Romney dovesse vincere le elezion). Già oggi lo scenario è impressionante: crisi bancarie a catena, bolle finanziarie, investimenti decurtati, fabbriche che chiudono, consumi che crollano, disoccupazione di lunga durata che esplode superando l’antecedente storico delle crisi petrolifere degli anni ‘70, inoccupazione giovanile e femminile che si allarga paurosamente. In effetti, il lavoro è investito da quella che i democratici americani non esitano a definire «job catastrophe», ritenendo che sia in gioco una questione di civiltà, che un capitalismo così rovinoso rischia di essere messo in questione nei suoi fondamenti di civilizzazione e di legittimazione. Le conseguenze, drammatiche nel presente, si rovesciano sul futuro. Coloro che non riescono ad entrare nel mercato del lavoro o ne sono espulsi per lunghi periodi sono condannati a diventare meno occupabili e produttivi vedendo deteriorato il loro patrimonio di abilità e di competenze. I disoccupati che riusciranno a ritrovare un lavoro subiranno una riduzione dell’aspettativa di vita e una perdita fino al 20% del loro reddito precedente che può protrarsi per decenni dopo il loro reimpiego. I risultati scolastici e lavorativi di bambini che nascono da genitori che sperimentano una carenza di lavoro saranno inferiori a quelli degli altri. In sostanza ogni mese di assenza di lavoro farà più poveri per decenni sia il singolo sia la comunità. Nella enorme ristrutturazione che sta avvenendo si preparano anche grandi semi di opportunità. Ma a farli germogliare non saranno i mercati se vengono lasciati alla loro autoregolazione, secondo i dettami non solo delle teorie neoliberiste ma anche delle più temperate teorie liberali – interpretate da vari esponenti del governo Monti – quando seguano sistematicamente l’antidecisionismo e l’antiprogettualità pubblica e si affidino solo ai tagli di spesa, sollecitazione della concorrenza, flessibilizzazione dei mercati del lavoro, privatizzazioni, riduzioni del cuneo fiscale, incentivi indiretti, compressione salariale. Solo una «grande spinta» generata dall’operatore pubblico – che si esprima in primo luogo con un Piano straordinario per la creazione di lavoro per giovani e donne – può sanare la «job catastrophe» e, al tempo stesso, porre le basi di una crescita «progressista», dunque di un nuovo modello di sviluppo centrato sui beni comuni, i beni sociali, la green economy. Non va diluita, va anzi rafforzata, la spinta che la Carta di intenti proposta da Bersani per il confronto sulle primarie imprime verso l’equità e verso l’orientamento dell’economia da parte dell’operatore pubblico. Questa spinta non si limita a chiedere correttivi dell’«agenda Monti», essa persegue un rovesciamento dell’agenda europea e di conseguenza dell’agenda italiana. I nodi da sciogliere sono immani, a partire dai tre principali: 1) il rapporto domanda/offerta (specie in Europa carenze di domanda coesistono con squilibri di offerta i quali fanno sì che in alcuni settori, per esempio l’auto, gli eccessi di capacità produttiva siano pari al 70% della capacità installata); 2) il rapporto domanda interna/esportazioni (porsi i problemi delle divergenze strutturali fra Paesi europei, comprese quelle di competitività, non in termini di germanizzazione dell’Europa implica che le esportazioni non abbiano per tutti il ruolo esorbitante che hanno attualmente in Germania e che ovunque sia fatto maggiore spazio alla domanda interna); 3) il rapporto consumi individuali/consumi collettivi (la sollecitazione dello sviluppo di beni sociali quali asili nido, servizi, spazi urbani, protezione dalla non autosufficienza è un modo concreto di rendere l’equità un fattore di sviluppo). Costruire una prospettiva di «lavoro di cittadinanza» piuttosto che di «reddito di cittadinanza» e di salario sociale è il modo più incisivo per aggredire i nodi indicati
L’Unità 14.10.12
Pubblicato il 14 Ottobre 2012