Tra i milanesi e i lombardi che ancora si occupano della cosa pubblica (non pochi, nonostante tutto) la fase terminale del lungo potere di Formigoni suscita, più ancora che scandalo, una specie di muto sgomento. NEL caparbio arroccarsi a Palazzo, nel rifiutarsi di prendere atto che le mura crollano, nei toni stizziti e immotivatamente offesi dell’indiscusso protagonista del dramma in corso, balena un raggio di follia di non facile lettura in una città pragmatica e spiccia, che al potere ha sempre chiesto di non essere troppo ingombrante e di essere possibilmente efficiente. Magari onestà e trasparenza non sono attitudini altrettanto richieste: non dalla totalità dei milanesi e dei lombardi, perlomeno, viste qualità e quantità degli scandali in corso, tutti fondati su una vistosa compartecipazione tra Palazzo e società. Ma perfino nel malaffare, dalle manfrine spicciole su appalti e subappalti alle grandi spartizioni finanziarie, Milano genera raramente quelle schiume da basso impero che lordano il sottopotere romano. I suoi scandali fanno poco colore e poco folklore, così da far risultare fuori ordinanza, e parecchio incongrui, le vacanze ai Caraibi sul panfilo del faccendiere, i viaggi premio per le comitive di trafficoni, le inquadrature per paparazzi.
Anche il cittadino di Lecco, chissà se oppositore o elettore deluso, che ieri ha gridato a Formigoni “vattene ad Hammamet” dovrebbe rivedere le sue categorie di giudizio storico.
Nella leva di politici travolta vent’anni fa da Tangentopoli i coinvolti erano in maggioranza funzionari di partito dalla vita privata di basso profilo, puntuali esattori per conto delle rispettive parrocchie, e la baldoria della “Milano da bere” riguardò prevalentemente gli ambienti rampanti delle nuove professioni. Faccendieri e mediatori della pacchia immobiliare e borsistica degli anni Ottanta erano, quanto a ingordigia e spregiudicatezza, molto più avanti dei loro interlocutori politici. (Viene da dire, col senno di poi, che dopo la decapitazione giudiziaria della vecchia classe politica i suoi ex complici hanno preso direttamente in mano anche la gestione del Palazzo: Berlusconi successore di Craxi dice già tutto, e davvero in questo caso a dire già tutto è stata Milano).
Quanto all’efficienza, nel nome della quale la Milano degli affari sa anche chiudere un occhio quando serve, ai milanesi (anche quelli non d’affari) non pare neanche vero che un business planetario come l’Expo abbia avuto un percorso così accidentato, ritardato, controverso, litigioso, scoordinato, tanto da far dubitare sul suo effettivo avvento. E un potere come quello formigoniano e fu-morattiano, così introdotto nel fare e nel costruire, ha perso nella vicenda dell’Expo molto del suo credito, perché si può ben sopportare, negli ambienti che hanno premura di far girare i quattrini, il sospetto di qualche infiltrazione mafiosa. Non il sospetto che nella stanza dei bottoni non si sappia quali bottoni premere, e di chi deve essere il dito.
Sia pure nel quadro di un deterioramento etico generalizzato, la tragica grandeur formigoniana ha comunque qualcosa di inatteso e di quasi incomprensibile. Perché le sue basi “ideologiche”, il cattolicesimo un po’ troppo operoso ma pur sempre sociale di Comunione e Liberazione, tutto lasciavano supporre tranne una così vistosa perdita di misura, un lievitare così smodato delle ambizioni personali e in qualche caso degli stili di vita, infine un’idea della politica smisurata e incontenibile, senza controlli o filtri o limiti che ne possano circoscrivere l’azione e giudicare gli atti. A partire da quella nuova sede regionale, un immenso grattacielo a specchio di impronta kuwaitiana, che per guardarlo dalle strade strette e dalle case basse del quartiere del-l’Isola, che più milanese non si può, bisogna mettersi gli occhiali da sole. E sarà anche vero che, nel lungo periodo, la Regione risparmierà sugli affitti, come assicurano i suoi contabili; ma chiunque pensi che le Regioni si sono montate la testa, credendosi Stati e come Stati spendendo, davanti a quel falansterio vanitoso troverà conferma che sì, le Regioni si sono montate la testa.
Se nemmeno l’arresto di un consigliere regionale del suo partito con l’accusa, gravissima, di avere comperato voti dai boss calabresi; se nemmeno lo svelamento diciamo così “ufficiale” di una penetrazione mafiosa oramai consolidata (e metabolizzata con amarezza da una città, e soprattutto da un hinterland, che quando va al ristorante o in pizzeria o entra in un negozio sa di avere buone probabilità di pagare il conto a una cosca); se nemmeno la voragine surreale nei conti di don Verzé e le carte sporche della sanità lombarda; se nemmeno il massacrante stillicidio di atti giudiziari contro uomini della Regione e l’opacissima vicenda che lo riguarda personalmente, sono bastati a Roberto Formigoni per prendere atto che la sua stagione politica è finita; viene davvero da pensare che ci sia, in questa caduta senza stile e senza ammortizzatori, una traccia di dissennatezza. Attenuante o aggravante che sia (un bravo leader politico dovrebbe avere, accanto a sé, chi lo avverte che sta passando il segno) questa dissennatezza dovrebbe far ragionare su una parabola politico-culturale che dai suoi presupposti e dalle sue presunzioni spirituali fino alle seduzioni del potere e degli affari, copre evidentemente un territorio troppo vasto. Anche psicologicamente troppo vasto. La formazione ascetico-penitenziale prepara all’estasi e alla fede, non al duro lavoro della politica. Lo si dice senza asprezza, quasi con un’ombra di pietas verso l’ex asceta che non ha retto l’impatto con il potere, con i ricchi, con le vacanze ai Caraibi, e ora che tutto sta per finire non trova la misura, così mondana, della sconfitta politica.
La Repubblica 14.10.12
Pubblicato il 14 Ottobre 2012