Poveri parenti, poveri giudici, poveri esperti, poveri poliziotti. Già: e il bambino? Prendiamo il fotogramma in cui viene trascinato (vi ricordate le due madri e il giudizio di Salomone?). Ci sono quattro persone, maschi, tre sollevano di peso e trascinano: il padre, lo psichiatra, e il poliziotto. Il quarto è lui, Lorenzo. Ha dieci anni. Un bambino di dieci anni ha tre svantaggi enormi nei confronti dei grandi: è più intelligente, è più sensibile, è molto più debole. Può reagire (“in modo violento”, ha detto il dirigente della questura, “a testate, calci, pugni”): anche un capretto portato via può scalciare e belare e mordere. È vero, bisogna usare molta cautela, molta discrezione quando si è tentati di giudicare una famiglia andata in pezzi. Ma molta più occorre usarne quando si afferra un bambino che non vuole. Si legge che i giudici della Corte d’Appello avevano prescritto di farlo in modi discreti, poveri giudici. Si sente il padre che dice che la cosa è avvenuta “con le modalità che la situazione richiedeva”, che il bambino “ora è sereno”. Dice quel disgraziato padre: se un bambino fosse stato sequestrato e la polizia lo liberasse dai rapitori, non dovrebbe farlo anche al prezzo di una colluttazione? Dovrebbe, sì, ma tutte le sindromi di Stoccolma non bastano a far immaginare un bambino rapito che corre a nascondersi quando vengono a liberarlo, e prende i liberatori a testate calci e pugni. Bisogna saperne di più, e giudicare è una tentazione terribile: a meno di essere Salomone, e di avere di fronte almeno una parte che vuole il bene del bambino più del bene che vuole al bambino. Qualcosa si è saputo: una prima sentenza aveva affidato Lorenzo alla madre, e la nuova sentenza si fonda su una supposta sindrome di alienazione parentale, formula cento volte più infida della sindrome di Stoccolma. Dunque non c’era un’urgenza tragica, abusi domestici, sfruttamento, botte. Da otto anni Lorenzo vive con la madre. Sono andati a prenderlo nella classe – modalità: svuotamento della classe da tutti i bambini tranne uno, e quando sono usciti tutti (ridevano? avevano paura? si sono voltati a guardarlo?) suo padre “l’ha abbracciato”. Povero padre. Mentre l’aula si svuotava il solo che restava si sarà chiesto che cosa gli avrebbero fatto; da come ha reagito occorre pensare che essere abbracciato lì, in quel modo, in quel momento, gli sembrasse una bruttissima cosa. Dunque è stato “inevitabile” che lo prelevassero di forza. Un bambino tolto alla casa, alla scuola, al suo banco – quali posti sono più protetti per una persona di dieci anni? – per essere portato “in una struttura protetta”, in “una comunità”. Spiegano: siccome il bambino quando lo cercavamo a casa “si nascondeva” – come un capretto – abbiamo dovuto, su ordine dei giudici, prelevarlo “in territorio neutro”. Aggrappato al suo banco, nella sua classe. Che cattivi ricordi evoca tutto ciò, non si ha nemmeno il coraggio di nominarli. “Ha cominciato a scappare attorno alla scuola e altri agenti lo hanno rincorso”. Quanti agenti erano stati mobilitati per l’impresa? La divisione anticrimine! Poveri agenti. E a nessuno di loro è venuto in mente di abbracciare il padre, discretamente, e telefonare al giudice, che non era possibile fare quello per cui erano stati mandati, e che si vergognavano troppo di continuare a rincorrere un primo della classe spaventato e furioso? “Non dovevamo farlo noi”, ha detto il dirigente anticrimine. Ha detto anche: “Non so che filmato abbiate visto voi. Nel nostro non c’è nessun trascinamento”. Povero dirigente: chi l’ha visto? Era un ordine dal quale non si poteva tornare indietro? Eppure tutte le ordinanze sulla patria potestà (è vero che tradizionalmente si privilegiano le madri, ma la potestà è rimasta patriarcale) hanno a fondamento “l’esclusivo interesse del bambino”. Era per il tuo bene, Lorenzo, che ti abbiamo acchiappato e strattonato, per il tuo esclusivo bene: al diavolo tutti gli altri. I nonni, poveri nonni, “si sono avventati sugli agenti”. La madre non c’era, era al lavoro. La zia ha filmato la scena, e intanto gridava: “Bastardi” – e Lorenzo ripeteva: “Bastardi” – e “Siete come la Gestapo” – questo Lorenzo non l’ha ripetuto, non doveva essergli famigliare. “La zia era lì per filmare”, dice qualche commento diffidente: ma no, ormai tutto si filma, e gran parte del filmato riprende piedi e cose mosse e strilli, “Aiutami, nonno”, “Non respiro”. Povera zia, dunque. “Io sono un ispettore di polizia e lei non è nessuno”, le ha detto l’ispettrice di polizia. Peccato davvero. Chi abbia appena frequentato i luoghi della sofferenza in questi anni ha imparato ad apprezzare la passione e la competenza inedite con cui donne della polizia trattano questioni come queste, di bambini da proteggere, di altre donne da liberare dalla strada e dai padroni.
È successo, ormai. Tutti avranno molte cose cui ripensare, fra sé e sé, prima di tutto. Comunque vada, resta Lorenzo, dieci anni. Troppo pochi per aver ragione fisicamente di padri agenti e psichiatri, troppi per non legarsela al dito, invece di un aquilone da far volare col suo compagno di banco perduto. Anche a dieci anni, se non hai fatto niente, e ti fanno il vuoto attorno per abbracciarti, ti rincorrono, ti tirano su di peso e ti deportano dentro una struttura “protetta”, il mondo ti sembra troppo ingiusto, e troppo cattivo.
Ho un poscritto. Ho saputo di una legge, in commissione alla Camera dopo essere stata approvata all’unanimità prima alla Camera e poi al Senato, ma con emendamenti che l’hanno fatta tornare indietro, sull’equiparazione dei figli naturali riconosciuti a quelli legittimi. Oggi i figli naturali, cioè nati fuori dal matrimonio, non hanno parenti, al di fuori dei genitori. Per fare l’esempio estremo, se perdano entrambi i genitori, non restano loro per la legge nonni o zii, e diventano figli di nessuno da dare in affido; la stessa cosa vale per l’eredità (quella dei genitori è riconosciuta dal 1975). È una condizione oltraggiosa della ragione civile e dell’affetto. A opporsi al voto finale (senza il quale la legge andrebbe alla prossima legislatura, cioè a farsi benedire) sono sorte due obiezioni, sulla competenza del tribunale dei minori – mentre per i figli legittimi decide il tribunale ordinario – e sul rischio di riconoscere uguali diritti a figli nati da incesto! Quest’ultima obiezione scambia il ripudio dell’incesto per il bando alle persone comunque venute al mondo, e riguarda un numero surreale, mentre il caso generale riguarda un 20 per cento di bambini italiani. Che, quando la tragedia della perdita dei genitori li colpisse, sarebbero tolti ai loro familiari e messi in una “struttura protetta”, “nel loro
esclusivo interesse”.
La Repubblica 12.10.12
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Quei diecimila figli divisi a metà “Così l’odio fra mamma e papà li rovina”, di VERA SCHIAVAZZI
IL DRAMMA di diecimila bambini italiani contesi nei tribunali ha ormai un nome, “sindrome da alienazione parentale”. E se è vero che quello di Padova è un caso limite è altrettanto vero che il problema è entrato sia nella giurisprudenza sia nello studio delle nuove patologie. Accade ogni volta che, dopo una separazione, il piccolo affidato a un genitore (statisticamente la madre) finisce col rifiutarsi di frequentare l’altro genitore, il quale si rivolge al Tribunale, innescando così un’escalation. Il rifiuto dei figli può spingersi all’estremo, alla “cancellazione” del genitore rimasto fuori casa, fino ad assumere la gravità definitiva di una perdita, un vero e proprio lutto. Può tradursi in un reato (due anni fa la Cassazione ha sancito il diritto di un padre al risarcimento dei danni sanzionando così chi “incoraggia i figli a dimenticare, rimuovere, respingere l’altro genitore”)
ma sta cominciando a essere studiata soprattutto come patologia, per le persone e per le famiglie divise. «Il dramma per i bambini spesso non è tanto la separazione, che pure temono molto, quanto la necessità di soccorrere il genitore che crolla emotivamente e che nel suo crollo vorrebbe trascinarli con sé usando la loro assenza come arma contro l’ex coniuge», spiega Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e esperto di problemi dell’adolescenza. Il danno rischia di durare per tutta la vita: «La soluzione non può essere, evidentemente, quella di obbligare il bambino o il ragazzo a rispettare i weekend stabiliti dai giudici, ma una terapia che deve coinvolgere tutta la famiglia e rimettere le cose a posto, restituendo al figlio i due genitori ai quali ha diritto. Senza questo, quel figlio non riuscirà mai a emanciparsi dalla sua situazione, a crescere, ad avere amicizie, amori, interessi».
È d’accordo Tilde Giani Gallino, psicologa e studiosa dell’età evolutiva: «In molti casi il divorzio è il minore dei mali per i figli, ma condizione di essere ben gestito, mantenendo un rapporto di cooperazione tra i genitori». Che fare quando il bimbo dice “da papà non voglio andare”? «Se un figlio non vuole vedere il padre è evidente che esiste un problema e la soluzione non può essere costringerlo ». Si possono ascoltare i bambini? «Si deve — risponde Gallino — e fin dalla più tenera età, dai 3 o 4 anni. Che cosa c’è dietro il loro rifiuto? Purtroppo, non tutti possono permettersi un terapeuta esperto in grado di accompagnarli lungo questo percorso. Invece la presenza di un
servizio terapeutico pubblico sarebbe essenziale». La vendetta attraverso i figli, insomma, non è solo un comportamento riprovevole, ma una vera e propria malattia sociale. «La legge sull’affido condiviso non ha risolto tutti i problemi — aggiunge Giulia Facchini, avvocato familiarista — Se da un lato è cresciuta l’idea che le decisioni importanti per i figli vanno prese insieme, dall’altro non si è riusciti ad abbattere il numero di casi nei quali qualunque pretesto, dal ritardo nell’orario a un presunto problema di salute del bambino fino alla comparsa di un nuovo partner dell’ex marito o dell’ex moglie, si trasformano in una faida che va al di là di ogni ragionevolezza». «Quello che è successo ieri — conclude Vincenzo Spadafora, Garante per l’infanzia e l’adolescenza — ripropone l’urgenza di una riforma della giustizia minorile. Ma soprattutto ci obbliga a ripensare alle strade per sostenere i genitori separati nei loro doveri verso i figli».
“Che errore mandare gli agenti ma a volte un giudice è costretto”, ELSA VINCI
«La polizia a scuola, il bimbo che scappa. Strilli, urla e pure un video-shock. Per “salvare” un bambino dalla madre bisogna farlo soffrire così? Io non credo che l’allontanamento con la forza possa avere un buon effetto. Sono momenti che si preparano con cura nel tempo ». Melita Cavallo, presidente del Tribunale per i minori di Roma, non apprezza il ricorso alla polizia e preferisce considerare «i provvedimenti eseguiti a scuola solo eventi eccezionali».
La disperazione del bambino ha fatto il giro di tv e web. Lui senza difesa contro gli agenti. Si fa così?
«Quello che si è visto è da evitare. Di solito un bambino va a prenderlo l’assistente sociale, uno psicologo con cui parla da mesi, che conosce benissimo. Una figura di cui si fida. Il ricorso alla polizia è previsto ma sconsigliato. Personalmente preferisco escluderlo. Se diventa indispensabile, deve avvenire con modi e in luoghi che rendano l’evento meno traumatico possibile».
Invece sono andati a scuola.
«Per i bambini la scuola è un luogo sicuro, un
allontanamento del genere mette in crisi questo concetto. Vale per lui e per i suoi compagni. Purtroppo l’intervento in classe si sarà reso necessario perché in passato ci sono stati tentativi falliti. A volte il giudice è costretto. La madre non aveva più la patria potestà, la Corte d’appello di Venezia ha deciso per la scuola perché a casa non è stato possibile prendere il bambino ».
Il trauma dell’allontanamento da un genitore si pone in ogni caso. Il tribunale come cerca di gestirlo?
«Il ragazzino va assolutamente rassicurato: la separazione non è per sempre. Non si perde né la mamma né il papà. Il magistrato dispone percorsi psicoterapeutici adeguati, il minore viene accompagnato da un’équipe multi professionale. Di solito io nomino un giudice onorario che segue il piccolo per mesi, ci parla spesso, può andarlo a trovare a scuola, cerca di fargli capire il perché. Assistenti sociali e psicologi gli fanno comprendere che se cambierà casa questo non vuol dire che la mamma non ci sarà più. Potrà continuare a vederla, a sentirla, a giocare con lei».
Ma se il figlio con il padre non ci vuole stare?
«Il bimbo deve fare conoscenza col papà e in questo percorso lo si accompagna. Si deve trovare lo spazio nella sua testa per far entrare il padre».
Questo bambino soffre di sindrome da alienazione parentale. Come si fa a tenere in equilibrio il diritto di tutti?
«Non vuole vedere il padre perché alienato verso di lui probabilmente dall’influenza dell’altro genitore. Si deve lavorare con personale specializzato. Tanto più adesso che ha subito un trauma, che resterà per sempre. E non dimenticherà mai».
La Repubblica 12.11.12
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