Ma che fine ha fatto a Milano e dintorni la tanto decantata «società civile»? Perché di fronte all’ondata di malcostume e di malaffare che si solleva dai palazzi della politica locale tacciono anche le voci di quella che un tempo era una borghesia imprenditoriale e delle professioni che guardava idealmente a Nord dei propri confini e alla quale buona parte d’Italia guardava a sua volta con non poche speranza?
L’ultimo arresto di ieri per un’accusa – più Calabria che Baviera – di voto di scambio, con tanto di tariffario delle preferenze veicolate dalla ’ndrangheta, si aggiunge a scandali seri e grotteschi (vedi alla voce Nicole Minetti) e certifica l’ennesimo colpo al potere di Roberto Formigoni. Cinque assessori delle sue giunte arrestati in otto anni, rendono sempre più debole la linea difensiva del presidente della Lombardia, che derubrica d’abitudine ogni inciampo della sua squadra a responsabilità personali. La condanna a dieci anni di reclusione appena inflitta al sodale Pierangelo Daccò per la spoliazione del San Raffaele potrebbe traslare sul piano politico responsabilità penali.
Il bel record di quattordici consiglieri regionali indagati a vario titolo su un totale di ottanta allarga il discredito anche al di fuori dello schieramento del governatore.
Ma mentre la lunghissima stagione del formigonismo mostra segnali inequivocabili della sua fine, quel che colpisce è proprio il silenzio che circonda la parabola di un sistema di potere. Quelle stesse categorie che più di tutte le altre dovrebbero essere colpite e ferite da quello che rivelano le inchieste giudiziarie, non foss’altro perché il rapporto inquinato tra affari e politica mina alla base ogni prospettiva di leale concorrenza e distorce in modo definitivo il mercato, non hanno invece reazioni apprezzabili. Del resto appare quasi impossibile trovare oggi nella capitale economica d’Italia, poteri «forti» che siano in grado di confrontarsi con il sistema costruito da Formigoni nei tre lustri e mezzo di sua permanenza al Pirellone. Le grandi banche, piegate prima sotto il peso della crisi finanziaria e adesso anche sotto quello di una congiuntura economica che affonda la lama nei loro bilanci, sono tutte concentrate verso azioni di risanamento interne. Quel che resta del capitalismo manifatturiero e dei suoi addentellati finanziari appare impegnato in battaglie talvolta feroci che scardinano il vecchio assetto dei patti di sindacato e si rivelano spesso come lotte per la sopravvivenza.
Se dalla grande impresa si passa a quel popolo di professionisti e partite Iva che dovrebbe costruire parte integrante della borghesia, il discorso cambia poco. Ripiegati su se stessi anche per la necessità di far fronte alla crisi economica, i ceti professionali non trovano del resto un’offerta politica che intercetti la loro domanda e affondano anzi nella grande palude dell’antipolitica.
Pesa probabilmente anche la difficoltà a fare i conti con un insuccesso collettivo: ancora pochi anni fa il mondo delle imprese offriva aperture di credito forti al governo regionale lombardo, come dimostra lo sterminato elenco di industriali e finanzieri che aderì al Comitato strategico per la competitività istituito proprio da Formigoni. E chi, come la Lega, ambiva a dar voce proprio ai ceti produttivi del Nord ha preferito – almeno fino a ieri sera – tirare a campare nel governo della Lombardia, stretta fra tatticismi elettorali e strategie politiche di incerto destino.
La degenerazione all’ombra del Pirellone, sulla quale pesano anche gli allarmi della Procura milanese – ripetuti ancora ieri da Ilda Boccassini – riguardo alle infiltrazioni della criminalità organizzata nel mondo politico ed economico lombardo, merita però una risposta rapida. Chi produce e lavora nell’area più avanzata del Paese e vede arretrare vistosamente il sistema di governo ha il dovere, forse prima ancora del diritto, di ritrovare la voce e farsi sentire.
La Stampa 11.10.12
Pubblicato il 11 Ottobre 2012