Scriveva Luis Sepulveda che «un popolo senza memoria è un popolo senza futuro». La memoria aggrega, è il collante che unisce generazioni, la memoria è la base della storia e del civismo. Ma in Italia la memoria spesso cambia forma, muta la sua pelle, si plasma a seconda della forma e dei contesti. Lascia spazio, alle volte, a rigurgiti di nostalgia che in politica trovano terreno nei movimenti che si rifanno al fascismo. Che non solo vengono tollerati, ma che spesso sono incoraggiati anche dai pubblici amministratori e ufficiali.Come è successo a Isernia. Dove fra qualche settimana si discuterà l’appello contro una strana sentenza di condanna di cinque uomini e due donne avvenuta il 5 maggio scorso. Strana non tanto per l’entità della pena, otto giorni di reclusione poi trasformati in un’ammenda da 1350 euro per ciascun imputato, quanto per le aggravanti.
I fatti, in breve. Il 27 ottobre del 2011 nella città molisana si confrontano due gruppi. Da una parte Casa Pound e Gioventù Italiana del Molise, movimenti di estrema destra, dall’altra il Comitato antifascista molisano. Quest’ultimo protesta contro la decisione della Amministrazione provinciale di concedere l’uso di una sala pubblica «alle associazioni neofasciste» che hanno organizzato un incontro pubblico. Per questo chiede e ottiene il permesso dalla questura di poter organizzare un sit in davanti al palazzo della Provincia. C’è forte tensione quel giorno. Alimentata anche dai giornali locali che ipotizzano l’arrivo di black block. Eppure tutto fila liscio. Le disposizioni del comitato per l’Ordine pubblico sono rispettate alla lettera fino a quando un gruppo di antifascisti, circa quaranta, si stacca dal sit-in. Ma fanno pochi metri. Fronteggiati dalla polizia desistono e se ne vanno via cantando. I gruppi, dunque, non vengono a contatto. Ma tanto basta perché la questura identifichi sette del Comitato e li porti davanti a un giudice. La colpa? Aver disatteso le disposizioni della questura, con le aggravanti di aver gridato, come scrive il procuratore Federico Scioli nella richiesta di condanna, «slogan del tipo “il Molise è antifascista” e intonato la canzone “Bella Ciao”».
«Dunque dice il giuslavorista Carlo Smuraglia, presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia nulla è successo se non che un gruppo di manifestanti si era appena mosso e soprattutto aveva cantato, ahimè, Bella Ciao». Ad Isernia, sostiene ancora Smuraglia, «lo Stato dimostra tolleranza per un movimento di fascisti sedicenti “del terzo millennio”, che in quanto tali sarebbero fuori dalla Costituzione, e poi fa la faccia feroce con gli antifascisti che protestano senza aver compiuto alcun atto di rilevanza penale». Ma in Molise non è solo senza memoria il giudice che ha condannato sette persone per aver cantato una canzone partigiana, non ricordando per altro che l’ideologia fascista in Italia è pur sempre un reato, ma anche la Regione e il suo presidente Michele Iorio. Il quale, il sette agosto scorso, si è affrettato ad assicurare il patrocinio del Molise, come si evince da una nota della presidenza con tanto di numero di protocollo, alla manifestazione commemorativa su «X settembre ’43 Isernia bombardata» promossa lo scorso otto settembre ancora una volta da Casa Pound e Gioventù Italiana. Una manifestazione che ha visto la partecipazione, tra gli altri, anche di un esponente della repubblica fascista di Salò. «Tutto questo spiega ancora il presidente dell’Anpi che lo scorso 25 luglio ha lanciato da Gattico (Reggio Emilia) una campagna di contrasto al neo fascismo trova le sue radici nel fatto che il nostro Paese non ha mai fatto i conti con il proprio passato, non ha mai fatto conoscere e analizzato a fondo il fascismo ed è stato troppo tiepido di fronte ai continui attacchi di revisionismo».
Che come un fiume carsico ogni tanto ritrova la superficie. Il caso di Affile, piccolo comune romano, e del mausoleo dedicato al criminale di guerra Rodolfo Graziani e sovvenzionato dalla regione Lazio con 170mila euro, è solo l’ultimo dei tanti casi. In Abruzzo, ad esempio, regione che pure vanta una tradizione partigiana di spessore (la Brigata Maiella tanto per fare un nome) negli ultimi mesi sono stati segnalati due episodi di revisionismo singolari. Il primo è avvenuto nel comune di Castellafiume (L’Aquila) dove una strada della frazione Pagliara è stata dedicata a Cornelio Di Marzio. Nella targa, una delle poche presenti nel paese dove le vie sono scritte sui muri, si celebrano le sue presunti doti di scrittore e poeta. Ma si omette di dire che Di Marzio è stato uno dei personaggi di spicco del fascismo sia in Italia sia all’estero, e soprattutto che è stato uno dei 100 firmatari delle leggi razziali. E questo sicuramente ha caratterizzato la vita di Cornelio Di Marzio più di quanto i suoi scritti, che nessuno conosce, abbiano mai fatto.
LO ZIO FAMOSO
Tutti conoscono, invece, Gianni Letta, per anni consigliere di Berlusconi nonché sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Letta lo scorso luglio è diventato cittadino onorario di un paese della Marsica che si chiama Aielli. Un omaggio che il sindaco Benedetto Di Censo ha voluto fare alle origini di un politico di spessore. Un atto di ossequio anticipato il 20 agosto 2011 dalla stessa amministrazione comunale che aveva rinominato la piazza principale del paese, piazza Risorgimento, intitolandola a Guido Letta, zio di Gianni, e piazzando a futura e imperituria memoria anche un busto di marmo. Eppure Guido Letta non è conosciuto solo per i suoi rapporti di parentela con l’ex sottosegretario del Consiglio ma anche per essere stato uno dei più ardenti sostenitori del fascismo in Italia. Anche lui figura tra gli autori delle leggi razziali emanate nel 1938 che furono causa di deportazione per migliaia di ebrei e che recentemente Mario Monti ha definito «infami e atroci». Tra l’altro il prefetto Letta fu anche membro della segreteria particolare di Benito Mussolini, e in quanto tale intermediò con il sicario del deputato socialista Giacomo Matteotti, Amerigo Dumini. Inoltre aderì alla Repubblica di Salò, fu nominato console della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale e collaborò attivamente con i tedeschi tanto da meritare l’Ordine dell’Aquila Tedesca, una speciale onorificenza istituita da Hitler nel 1937 assegnata a soli 9 prefetti su 322.
Ma nel Paese senza memoria una menzione la merita anche il presidente della Provincia di Catanzaro Wanda Ferro, un passato nell’Msi, poi An e infine Pdl. Lo scorso 14 settembre ha concesso all’Associazione Furor la Sala Consiliare della Provincia per la presentazione del libro «L’aquila ed il condor» di Stefano Delle Chiaie, noto neofascista degli anni di piombo. Ma il presidente non si è solo limitata a questo, ignorando che Catanzaro è stata sede del processo per la Strage di Piazza Fontana, ma ha anche preso parte attiva alla presentazione del libro cimentandosi in una ricostruzione particolare della storia, definendo quella della Resistenza, la lotta di liberazione dal nazifascismo, «una chiara manipolazione della verità».
«La presentazione del libro di Delle Chiaie, l’ospitalità e la presenza di Wanda Ferro all’iniziativa è un episodio che conferma le tendenze nostalgiche del presidente della Provincia di Catanzaro» spiega in una nota il segretario generale della Cgil di Catanzaro, Giuseppe Valentino. Tra l’altro il presidente Ferro fino a qualche tempo fa era affiancata nella sua giunta da Natale Giaimo segretario provinciale de «La Destra Fiamma tricolore», lo stesso che lo scorso agosto ha promosso il raduno presso la statua della Madonna a Monte Covello, eretta nel 1939 per osannare le gesta del regime dopo la costruzione della strada che da Girifalco porta alla montagna, in ricordo dei «martiri» fascisti.
L’Unità 09.10.12