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"La ricerca crea sviluppo", di Donatella Coccoli

Chirurgia endoscopica, assistenza agli anziani, riabilitazione pediatrica. L’Istituto di BioRobotica del Sant’Anna produce robot ai servizio del cittadino. «Una tecnologia che, se potenziata, può creare nuovi posti di lavoro», afferma il direttore, l’ingegnere Paolo Dario. Un robot salverà l’economia? La produzione di automobili lascerà il posto a quella di oggetti dalle tecnologie raffinate e dai materiali leggeri? A due passi dai binari della stazione di Pontedera, c’è l’Istituto di BioRobotica della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Il luogo è di per sé significativo: una sorta di “campus anglosassone” all’interno di un edificio ristrutturato che un tempo faceva parte della cittadella Piaggio. La fabbrica della più grande azienda europea di scooter, colpita come tante dalla crisi, è là davanti, con il suo ingresso austero. Pochi metri di strada dividono i due edifici, ma la distanza è ben altra. Di là, la produzione industriale di beni di consumo ormai in picchiata, di qua la produzione di idee che si materializzano in macchine utili per il futuro della società, dell’ambiente e della medicina. Dai robot per l’assistenza agli anziani a quelli per esplorare i fondali marini, dalle minicapsule per la diagnosi medica a strumenti di naicrochirurgia interna: invenzioni che potrebbero diventare i prodotti delle fabbriche del domani. «Il Paese va ricostruito. E ha bisogno di innovatori, di persone incoraggiate a essere creative, a sognare e a saper realizzare», afferma sicuro il professor Paolo Dario, ingegnere biomedico, che dell’Istituto è stato il fondatore e che lo dirige parlandone con affetto, come fosse un figlio. In tempi in cui la parola innovazione viene sbandierata come una formula magica, siamo andati a verificare la realtà di un luogo che potrebbe, forse, dare delle idee a chi si occupa di politiche industriali. «Io sono convinto della bellezza dell’ingegneria se non è pura esecuzione, ma è creazione, invenzione, impresa, iniziativa. L’ingegnere è quello che sogna e fa», dice, citando gli esempi di Steve Jobs e Adriano Olivetti, questo elegante signore dall’impercettibile accento livornese che vive metà dell’anno all’estero tra Cina e Giappone. «L’innovazione non si impara a scuola, dai libri, si impara in un ambiente che ti incoraggia a esserlo», afferma Dario tra i corridoi della palazzina dove sfilano giovani ricercatori tra cui moltissime donne. L’istituto è nato nel 2011 da due laboratori esistenti da vent’anni nella sede sorta grazie anche a Enrico Rossi, allora sindaco di Pontedera, oggi governatore della Toscana. È uno dei sei istituti di ricerca della Scuola superiore di Pisa e nei tre anni di dottorato successivi alla laurea (e nei due post) si formano non solo ricercatori in ingegneria, ma si gettano anche le basi per vere e proprie imprese. Qui lavorano 160 giovani dottori di ricerca (li chiamano Phd che lui, alla livornese, chiama “super ganzi” ) attorno a progetti per lo più sostenuti da finanziamenti europei. «Sono 160 persone, io vorrei che fossero 16mila», continua il professor Dario, mentre seduto ad un tavolo mostra sul portatile slideshow e filmati che illustrano le attività dell’Istituto. «Con 160 ingegneri Phd magari si potrebbero creare lavori per altri 15mila ragazzi non così creativi», aggiunge. Uno di questi video lo ha mostrato a luglio anche al ministro della Ricerca Francesco Profumo, ingegnere pure lui. Il nodo oggi è proprio questo, come racconta a left: promuovere la ricerca d’eccellenza significa contribuire al progresso del Paese. «La Scuola superiore di Sant’Anna nasce istituzionalmente proprio per educare all’eccellenza, per formare persone che abbiano vocazione, dimestichezza verso l’applicazione, sia tecnica che sociale», spiega il professore, disegnando su un foglio cinque caselle, gli anni della laurea. «Ma i 5 anni dell’università servono essenzialmente per la formazione di base e professionale. Da qui escono i laureati, i potenziali esecutori nel senso di realizzatori di cose altrui, bravissimi ingegneri, ma non sempre sono produttori di nuove idee». «La produzione di idee nuove si raggiunge appieno o con l’esperienza in un ambiente creativo appunto, o, in un ambito universitario la si ottiene solo nel dottorato di ricerca ed è quello su cui noi abbiamo puntato», continua Dario, aggiungendo alle cinque caselle, altre tre e poi due ancora, quelle del post dottorato: «Ecco i nostri tre pilastri: educazione, ricerca e trasferimento tecnologico». Per inventare qualcosa di nuovo da immettere nel mercato è necessario avere nuove conoscenze, e per questo motivo è necessaria la ricerca dì base. «Quello di cui il Paese ha bisogno è questa parte. È qui che il Paese deve investire», sottolinea con forza Dario. «L’industria, l’Alcoa, le aziende manifatturiere in crisi, i poveri lavoratori del Sulcis, hanno pagato il fatto che nessuno veramente abbia alimentato questo sistema della ricerca. Il successo della Germania deriva dal fatto che ha investito non solo negli anni della laurea, ma qui» e indica con la matita le caselle del dottorato di ricerca e di post dottorato. Intanto, una grande opportunità potrebbe arrivare dall’approvazione in Commissione europea del grande progetto di cui è coordinatore l’ingegnere toscano. Si chiama The robot companions for citizen (RoboCom), il frutto di una sinergia di un consorzio di undici partner di Paesi europei. A guida italiana, coordinato dall’lit (Istituto italiano di tecnologia) in stretta collaborazione con il Sant’Anna, il progetto prevede il finanziamento complessivo di un miliardo in dieci anni: in caso di approvazione, coinvolgerà un migliaio di persone tra ricercatori e lavoratori dell’indotto. RoboCom si basa su una multidisciplinarietà dei saperi (dalla medicina alla chimica, dall’ingegneria all’informatica) e rivoluziona la robotica sinora concepita. Le macchine, a differenza di quelle di prima generazione, sono ideate a partire dagli esseri viventi, dalla loro anatomia e dai loro movimenti, con una ricerca approfondita su nuovi materiali e su risorse energetiche da utilizzare nel miglior modo possibile. «Da una nuova scienza a una nuova tecnologia» si legge nel Manifesto The robot companions for citizens, che prevede anche l’attenzione peri risvolti psicologici, etici, sociali e legali dell’impatto dei robot nella società, visto che i loro compiti interagiscono fortemente sia con l’essere umano che con l’ambiente. Ma a quali robot si sta lavorando a Pontedera? Per la medicina, prima di tutto. Come possiamo toccare con mano nel laboratorio di diagnosi e chirurgia endoscopica. La ricercatrice Selene Tognarelli mostra le “pillole” da inghiottire con tanto di motore interno e telecamera per poter effettuare la gastroscopia. Hanno anche delle eliche, che consentono alle “navicelle” di muoversi nello stomaco riempito d’acqua. Sono allo studio anche quelle, più complesse, che viaggiano dentro il lungo tubo dell’intestino e che per muoversi tra le pareti e la flora intestinale hanno delle zampette simili a quelle dei parassiti. La fantascienza del celebre film con Raquel Welch, Viaggio allucinante, con gli scienziati dentro un sommergibile miniaturizzato che si introduce nel corpo umano oggi è quasi una realtà. Ma la nuova “filosofia” robotica emerge anche nel progetto Octopus coordinato dalla professoressa Cecilia Laschi che si basa sul polpo e i suoi movimenti. In particolare si sta studiando un robot-strumento chirurgico che è flessibile e rigido al tempo stesso, può entrare dentro In cantiere un progetto con undici partner europei e un finanziamento di un miliardo di euro il corpo umano dall’ombelico, per esempio, come fosse un tentacolo e poi trasformarsi in una micro sala chirurgica da gestire attraverso comandi esterni. Esiste anche la robotica riabilitativa per l’infanzia, come si vede nel laboratorio Care Toy di cui è project manager Francesca Cecchi: robottini-giocattolo per neonati da 3 mesi a un anno che servono al pediatra per diagnosticare problemi medici e per la successiva riabilitazione del piccolo anche “in remoto”, da casa. E poi robot per
gli anziani, che ricordano loro le terapie e le medicine da prendere o DustCart, il robot “spazzino” per la raccolta differenziata in piccoli centri. Chiamato dalle famiglie, viene direttamente a casa, e poi riparte con i rifiuti da rovesciare nei cassonetti. «Qui se mai ci sono problemi di carattere legale e assicurativo da affrontare, oltre alla prevenzione di eventuali atti vandalici», sostiene Pericle Salvini, un ricercatore laureato in materie umanistiche che è responsabile di tutti quei problemi etici e legali connessi ai robot e project manager del progetto RoboLaw. Dall’Istituto di Pontedera esce gente preparatissima, «tutti trovano un lavoro», dice con orgoglio il professor Dario che racconta come i ricercatori italiani siano «bravissimi rispetto per esempio ai colleghi orientali, perché hanno un pensiero trasversale capace sempre di trovare soluzioni». Non bastano però le isole felici, è chiaro che l’Italia dovrà scegliere quale strada intraprendere. «Io credo che sia possibile creare posti di lavoro in industria di alta ma anche di medio e bassa tecnologia con tecniche innovative. La robotica è un saper fare che riflette la forza dell’industria manifatturiera italiana e sarà una delle tecnologie di maggior potenzialità nei prossimi anni», conclude il professor Dario. «E comunque sia, non ci sono alternative. A meno che non vogliamo rifugiarci nella terra o puntare sul turismo e fare i servi dei ricchi turisti russi, senza cartacce al Colosseo e con ì treni efficienti, però. Oppure potremmo scommettere su tutti quei giovani pronti a fiorire, se molti signori dell’industria e della politica capissero davvero che patrimonio hanno a disposizione».
da Left 08.10.12