C’è immigrato e immigrato: c’è Enrico Fermi, per dire, e il padre di Al Capone. Con la complicazione che quando Enrico Fermi sbarcò negli Stati Uniti era già un fisico di fama internazionale, mentre Gabriele Caponi – il padre di Al – si presentò a Ellis Island a chiedere il visto di ingresso negli Usa da sconosciuto qualunque in mezzo a migliaia di sconosciuti. Il visto fu concesso, l’impiegato trascrisse male (Caponi diventò Capone) e gli Stati Uniti si misero in casa i genitori dell’uomo che sarebbe diventato il nemico pubblico numero uno. Qualche anno più tardi, d’altra parte, gli studi di Enrico Fermi avrebbero consegnato alle loro forze armate la bomba che ha risolto la seconda guerra mondiale e una lunga serie di studi sull’energia nucleare che negli anni del Dopoguerra hanno avuto una parte preponderante nella fortuna economica mondiale del Paese. Ci sono Stati che hanno fatto tesoro di questa lezione e oggi provano a garantirsi il massimo profitto dagli immigrati.
L’esempio del Canada Buon ultimo è arrivato il Canada, che fa concorrenza giusto agli Stati Uniti: ha messo a punto una serie di agevolazioni per i visti agli studenti più brillanti, e per la selezione dei migliori s’è affidata a una società di venture capital, ovvero a chi di mestiere seleziona gli investimenti migliori. Gli studenti migranti vengono valutati come una start up, insomma. Nel fiume di esseri umani che cercano di abbandonare le zone più povere del pianeta per ritagliarsi il diritto di cittadinanza nel ricco occidente ci sono senz’altro cervelli che hanno i numeri per disegnare le svolte del futuro. I Paesi che se li aggiudicano vinceranno: anche il padre di Steve Jobs era un immigrato. Il Canada offre sgravi fiscali, alloggio a prezzi calmierati, possibilità di studiare nelle migliori università. Basta allegare il curriculum giusto alla richiesta di visto. L’obiettivo è intercettare, – per esempio tra le migliaia di ragazzi che ogni anno abbandonano l’India dopo aver cominciato studi informatici -, quelli che covano l’intuizione giusta.
Chi si attrezza in Europa Anche la Francia fa lo stesso, e distingue i permessi di ingresso sulla base del cursus honorum da studente. Ci sono un permesso di soggiorno di tre anni dedicato a «competenze e talenti»,e uno scientifico. Terminati gli studi, Parigi proroga i permessi per fare in modo che gli studenti trovino un lavoroe si decidano a restare nel Paese.
L’Inghilterra distingue i migranti «altamente qualificati». Per loro ci sono permessi di ingresso su misura divisi per categoria: dai «talenti eccezionali» (persone che sono riconosciute come leader nella scienza i delle arti), agli «imprenditori» (persone che vogliono creare o rilevare un’attività commerciale nel Regno Unito) e gli investitori. Poi ci sono i «qualificati» , con un sistema a punti che comprende: sportivi, trasferimenti aziendali, personale religioso. Anche Spagna e Germania hanno messo a punto programmi di ingresso studiati con l’intento di favorire lo sbarco di eccellenze nelle università patrie. Anche così Madrid e Berlino sono diventate le mete preferite degli studenti migranti di tutto il mondo.
Quanto vale un cervellone Il gioco vale la candela. Secondo un calcolo all’ingrosso, la ventina di scienziati italiani trasferiti negli States negli ultimi dieci anni ha per un valore complessivo di 861 milioni di euro, circa 60 milioni a testa. Questo solo prendendo in considerazione i ritorni immediati dei brevetti cui hanno partecipato. Perché quando un’intuizione si trasforma in un’industria allora bisogna aggiungere al conto tutto l’indotto: posti di lavoro, entrate fiscali, consumi delle famiglie, tutto comincia a crescere in una giostra che produce ricchezza.
Nel mondo oggi ci sono quasi quattro milioni di studenti in trasferta. Il numero cresce esponenzialmente: la società globalizzata della rete, attraverso lo scambio continuo di informazioni, moltiplica continuamente le occasioni di contatto. I Paesi più lungimiranti si appostano lungo gli snodi di queste relazioni e provano a intercettare il meglio. L’Australia accoglie da anni solo le persone di cui pensa di aver bisogno, molti Paesi africani fanno ponti d’oro per richiamare in patria i loro figli cresciuti (ed educati) nelle università europee e americane per sfruttare in patria le conoscenze che hanno acquisito. Una vera miniera di talenti per Paesi che spesso sono impegnati nella costruzione di un apparato amministrativo e imprenditoriale moderno.
Le scuole italiane L’Italia ha ottimi numeri per attirare gli studenti che vagano per il mondo (i Politecnici di Milano e Torino sono mete ambitissime), ma offre poche attrattive una volta terminati gli studi. Siamo un Paese che garantisce poche occasioni a fronte di costi piuttosto alti: il mercato del lavoro è immobile, la fiscalità è tra le più alte del mondo. Abbiamo, è vero, uno dei migliori sistemi sanitari, ma i giovani pensano di non averne bisogno e non lo mettono in conto al momento di fare le loro scelte. Il rischio è che di tutta questa giostra ci limitiamo a incassare qua e là qualche retta universitaria, un po’ di abbonamenti ai mezzi pubblici e qualche anno di affitto di un monolocale.
Questo modo di pensare, però, rischia di rivelarsi gretto e anche un po’ meschino. Davvero abbiamo lo stomaco di andare a proporre un test di ammissione ai disperati che approdano mezzi morti di sete a Lampedusa dopo aver traversato il Mediterraneo su un barcone? E cosa facciamo di chi non lo supera? La concorrenza è una bella cosa, la discriminazione – sia pure quella basata su una valutazione onesta delle capacità personali – un po’ meno.
La Stampa 07.10.12
Pubblicato il 7 Ottobre 2012