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"Il Pd oltre le primarie", di Adriano Sofri

Ignorando per un momento la vertenza sul regolamento delle primarie, vorrei dire perché la situazione non potrebbe essere più favorevole al Pd. La premessa è che il tracollo del centrodestra, Lega e Pdl, è il regalo insperato che insipienza, volgarità e ingordigia dei nuovi ricchi del governo e del sottogoverno hanno fatto al Pd, che non vi ha avuto un gran merito. Oltretutto la Lega aveva occupato lo spazio del rancore xenofobo e razzista. Così che il suo sprofondamento lo indirizza, non in una dichiarata estrema destra, ma nella reazione antipolitica, elettoralista o astensionista. Il Pd può essere il beneficiario di questo passaggio insieme drammatico e buffonesco, e può anche esserne travolto. Ci sono moltissime ragioni di delusione nei confronti del Pd, della sua deliberata confusione e della sua inefficacia; ma è infantile o vanesio non vederne la differenza dalla maggioranza berlusconista, anche dentro la grottesca necessità del sostegno comune al governo Monti. Chi veda lo scandalo di una crisi che esaspera le disuguaglianze ed espropria la politica democratica deve scegliere se confidare esclusivamente nei tempi lunghissimi della costruzione minoritaria di una conversione sociale ed ecologica, dando per indifferente un’alternativa di governo vicina, o se riconoscere nella vittoria del Pd una condizione più favorevole alla difesa del lavoro e degli impoveriti, al rovesciamento del ricatto finanziario e a un europeismo e un internazionalismo dei diritti. Nel secondo caso la sorte del Pd ha un’importanza determinante. Perché dunque mi pare che la situazione non potrebbe essere più favorevole per il Pd? Perché le circostanze, abbastanza fortuitamente, hanno fatto sì che nelle primarie si giochi una posta essenziale. I suoi protagonisti, Bersani e Renzi (Vendola ha una grande responsabilità, ma è fuori dal Pd), hanno finito per incarnare un dilemma cruciale del nostro tempo. Renzi lo immagina e lo fa immaginare come un tempo novissimo. Bersani lo immagina e lo fa immaginare come un tempo di trasformazione. Renzi non è candidato di programmi, troppo affini a una linea politica, troppo affine a sua volta a parole come destra e sinistra, perché la sua offerta viene prima dei programmi: è il “tutti a casa”, il ricominciare daccapo, la definizione di sé secondo “quel che non siamo, quel che non vogliamo”. La sua idea forte è che la politica vigente, anche quella non compromessa col malaffare, sia ancora dentro il Novecento, e non abbia capito quanto il mondo e i suoi linguaggi siano nuovi. È un’idea nient’affatto distante da quella che sventola il movimento 5 stelle, salvo che Renzi la trasferisce dentro il Pd, di cui ha sperimentato la debolissima resistenza agli assalti (un suicidio collettivo di vecchie volpi nel caso delle primarie per Firenze) e il credito e il seguito residuo che può dare. Il giovanilismo di Renzi sarebbe poco attraente se non coincidesse con il rigetto popolare e populista verso un’intera classe dirigente, e con l’impazienza verso i partiti storici. Oltretutto, nel Pd, benché abbia le ali impiombate dai notabili, un ricambio di generazione si compie, e non solo di facciata: nella Toscana di Renzi molti dirigenti del Pd sono più giovani di lui. Renzi gioca a modo suo la carta di un entrismo, perché l’entrismo storico (la tattica di stare dentro i partiti comunisti per condizionarli dissimulando la propria eterodossia) era il colmo della dedizione ideologica, mentre Renzi è per così dire il colmo del disinteresse per l’ideologia, che può voler dire della spregiudicatezza senza principii o di un eclettismo pragmatista. All’obiezione: con quale competenza starai di fronte ai capi delle potenze internazionali, Renzi può rispondere con un’alzata di spalle. La competenza ho il tempo di farmela. Se non fosse che il mondo è terribilmente cambiato, e così in fretta, e sempre più in fretta vada cambiando sotto il nostro naso raffreddato, si potrebbe concludere che Renzi propone una variante dell’antica tabula rasa, della piazza pulita (termini in voga nelle nostre arene) che fondava le rivoluzioni. A essere un po’ cattivi, una tabula rasa “per le dame”. E però Renzi non ha a che fare con Berlusconi, e il paragone è visceralmente sentito ma del tutto insussistente, e quando dichiara che il primo rottamato da lui sarebbe Berlusconi, Renzi non fa solo una battuta per respingerne il furbo corteggiamento, dice una cosa vera. Renzi non è miliardario, non è vecchio, non è arrapatissimo: è il portabandiera estemporaneo dell’idea diffusa che bisogni liberarsi di ogni arretrato e riguardare la realtà con occhi nuovi e ingenui. Non è un leader carismatico e non ci prova, non è un profeta-buffone: è un ragazzo svelto, e la sua idea di modernità mira alla velocità. Non è detto che sveltezza e velocità coincidano, non è detto nemmeno che più veloce sia di per sé più buono. Col che siamo a Bersani.
È curioso che l’improntitudine di Renzi abbia sigillato la sfida con Bersani dentro una doppia terminologia automobilistica, la rottamazione contro l’usato sicuro, in un’epoca in cui l’automobile va in rimessa. Nemmeno Bersani è un leader carismatico, e lo sa fin troppo: a furia di rinfacciarglielo gli avevano messo addosso un po’ di complesso da “figlio della serva”, poi è arrivato Crozza e gliel’ha tolto. Raro caso in cui un comico ha dato molto a un politico, e il politico ha restituito moltissimo a un comico. Che i due contendenti non siano “carismatici” è affare di cui congratularsi, dopo la sbornia. Bersani è appunto affidabile, sa che cosa significhi amministrare e governare, ha una sensibilità sociale incomparabile con quella del suo rivale. Ma non sarà questo a decidere. L’offerta di Bersani si è fatta molto più chiara grazie alla sfida di Renzi. La dico con le parole che mi sembrarono decisive al momento di congedarsi dal sogno della palingenesi politica: qualunque cimento intraprendessimo, da allora in poi, non avremmo avuto altra eredità cui affidarci se non quel nostro (e di tanti altri prima di noi) passato esausto. Non il poetico “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, la cui incertezza Renzi ha mutato in baldanza e buttato in politica, ma quello stesso pensiero con l’aggiunta di un minuscolo avverbio di tempo: più.
Ciò che non siamo più, ciò che non vogliamo più. Non voglio chiudere Bersani nelle mie parolette, ma il vero senso della sua candidatura mi pare consistere di quello: c’è un passato che si è ereditato e cui si è appartenuti, benché non al punto di finirne ostaggi, e la distanza presa da quel passato è un criterio prezioso per misurarsi col futuro. L’usato sicuro dice male questa condizione, ne fa una rassicurazione moderata e intimidita. Al contrario, essa ha bisogno di radicalità almeno quanto la scommessa di ripartire da zero. Vincendo chiaramente le primarie aperte, Bersani avrebbe le mani molto più libere per compiere lo svecchiamento e il rinnovamento indispensabili, senza cedere alla demagogia. La questione del governo tornerebbe nel campo della politica elettiva, e al tempo stesso si limiterebbe la distorsione delle elezioni verso la vendetta antipolitica e la lotteria degli aspiranti. I cambiamenti avverranno, sono già avvenuti, spettacolosi. Ma non c’è ingenuità in politica che rifaccia il mondo. È la storia di Mani pulite, ma soprattutto dell’ecologismo e del femminismo: cioè dei punti di vista che più di tutti avrebbero richiesto una rottura antropologica. I candidati principali alle primarie sono maschi. Anche qui si può immaginare una differenza fra chi non è più maschilista –piuttosto: si sforza di non esserlo più– e chi crede di non esserlo mai stato, di essere venuto dopo l’invenzione dei vaccini. E ancora, fidarsi di più di un antinuclearista di sempre, o di un nuclearista pentito? Il fatto è che la storia del genere umano è andata avanti così a lungo, così generosamente e così ottusamente, in una direzione, che non esiste un solo campo in cui un acquisto non abbia bisogno di un passo indietro, una nuova strada non sia anche la retrocessione da un vicolo cieco. Insomma, le primarie per la candidatura sono una vera scelta fra i modi possibili di trattare la cosa pubblica e la scritta che corre sul suo imballaggio: Fragile.

La Repubblica 06.10.12

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