C’erano un vecchio di 50 anni e un giovane di65, mercoledì sera a Denver. È da questa fatale sensazione, dall’impressione di stanchezza e logoramento, che Obama deve partire per capire le ragioni della sua sconfitta. NON è stato Romney a sconfiggere Obama. È stato Obama a sconfiggere se stesso. Dimentichiamo pure le cifre sparate a migliaia di miliardi, le percentuali, gli improbabili programmi che i due si sono scambiati per un’ora e mezza, raggiungendo momenti di noia lancinante che il disastroso conduttore Jim Lehrer non ha mai saputo controllare, spezzare o vivacizzare. I diligenti “ fact checker”, coloro che confrontano le parole con i fatti, hanno subito indicato che la matematica fiscale di Romney – meno tasse, più soldi al complesso militarindustriale e più tagli – è la solita, vecchia «economia del vodoo » come la aveva definita Bush il Vecchio, che costrinse proprio lui ad aumentare le imposte per sanare il bilancio federale disastrato da Reagan ed aprì poi la voragine nella quale l’America di Bush
il Giovane precipitò l’America, e con essa noi.
La vittoria di Romney su Obama nel primo incontro è stata un successo di immagine. Il trionfo di un narratore su un altro. Dunque la ripartenza del Presidente deve muovere dal racconto, deve riprendere in mano quel filo della narrazione che tanto bene aveva saputo impugnare nel 2008 con la promessa del cambiamento e che quasi quattro anni alla Casa Bianca gli hanno fatto cadere di mano. E il modello, lo schema di quanto dovrebbe fare a partire dal secondo dei tre incontri, fra dieci giorni, Obama l’ha davanti agli occhi.
È il “modello Clinton” dal quale deve ripartire per trasmettere agli elettori il senso della profonda differenza che esiste fra la visione spietatamente darwinista della nuova destra e la concezione di una società più equa e generosa, della sinistra.
Clinton era, ed è ancora più dopo essere sopravvissuto agli scandali più ignominiosi, l’incarnazione di un’idea di America. Poteva non piacere, ma si sapeva qual era. L’Obama di mercoledì sera non ha fatto capire quale America volesse rappresentare, a chi si rivolgesse, quali radicali differenze lo distinguessero dall’abile piazzista di vecchie spazzole ideologiche di fronte a lui. Ha detto molto, ma non ha parlato. «Deve aprire una conversazione con l’America» ha tentato di gridare James Carville, l’uomo che costruì il successo elettorale di Clinton «deve parlare a ogni singolo elettore come se fosse seduto accanto a lui al tavolo di cucina, davanti ai drammi quotidiani, alle bollette e alla lettera di licenziamento, all’ansia per il futuro».
Era la formula che escogitò Franklyn Delano Roosevelt, quando nell’era pre televisione e pre Internet lanciò le “ Conversazioni accanto al caminetto”. La stessa formula che i Kennedy, John e Bob, sapevano istintivamente utilizzare “ parlando al cuore e sapendo che il cervello lo avrebbe seguito”, come scriveva William Manchester. E che Clinton e Reagan ripresero alla perfezione, conquistando due vittorie ed entrando nella leggenda. Ed è quello che l’Obama del 2008 seppe fare e l’Obama del 2012 non sa più fare. Ma Obama non è Clinton. La sua passione per il “job”, per il lavoro più logorante del mondo, sembra esaurita, come se quella vittoria, che comunque resterà per sempre nella storia visto che non ci potrà essere un «secondo primo presidente afroamericano », gli bastasse. Il peso mostruoso di una istituzione e di una responsabilità che ogni giorno costringe un presidente americano a occuparsi e preoccuparsi della Siria, della Turchia, di Wall Street, di Ahmadinejad, dell’Afghanistan, della Cina, dell’andamento del mercato immobiliare, dei mutamenti climatici, della crisi dell’euro, di tutto, perché nulla nel mondo è fuori dalla sfera di influenza degli Stati Uniti, lo ha affaticato, ingrigito e invecchiato. Clinton, che alla responsabilità dell’incarico aggiungeva le conseguenze politiche e giudiziarie della propria incoscienza, si caricava di nuova energia di fronte alle crisi. L’Obama di mercoledì sera appariva sopraffatto, quasi malinconico.
«Vi avevo detto che non ero un uomo perfetto e che non sarei stato un presidente perfetto» ha detto.
Ora sarà costretto ad attaccare senza avere il talento dell’attaccante. Dovrà rischiare, cosa che lui, prudente e calcolatore, non ama fare. Dovrà mostrarsi giustamente incollerito, per la impudenza dell’avversario che nega alla sera quello che afferma alla mattina, uomo per tutte le mezze stagioni. Ma dovrà farlo con precisione chirurgica, senza mai scomporsi, perché su lui pesa sempre la lunga ombra del proprio colore, la “alienità” della sua figura per quei milioni di americani che lo aborrono, che lo considerano comunque un usurpatore e lo schiavo protervo entrato nella casa del padrone della piantagione. Obama dovrà esibire passione e rabbia, senza interpretare quell’“angry black man”, quel nero agitato e rabbioso che tanta parte dell’America ancora oggi teme e odia.
La domanda centrale, per sapere quali siano ancora le sue possibilità di essere rieletto e di vincere un’elezione che sembrava perduta in partenza nel nebbioso clima economico del 2012, e fino a mercoledì sera invece era stata data per vinta, torna quella che ci ponemmo mesi addietro, quando la sua popolarità era al minimo: lo vuole? Barack Obama vuole davvero essere rieletto oppure ha “il fuoco dentro”, o ha raggiunto la triste conclusione che un uomo politico onesto con se stesso e con il pubblico fino al masochismo, raggiunge: che in questo tempo di politica «contro», di ostruzionismo, di feroce polarizzazione e di acrimonia interpretata dai partigiani del Tea Party, cambiare è impossibile e governare è inutile? Ma tutto può sembrare un Presidente, il leader, il pontefice della “religione America”, meno che un uomo rassegnato.
La Repubblica 05.10.12