Dopo Monti? Non può esserci un altro governo Monti. Anche perché una riedizione dell’esecutivo a guida tecnica avrebbe come principale significato quello di aver fallito il mandato esplicito ricevuto nel novembre scorso. Le consegne che il Capo dello Stato diede allora erano assai trasparenti. Affrontare una emergenza drammatica, con l’autonomia e la sovranità del Paese appese a un filo che diventava sempre più esile, e preparare così la lenta ripresa di una normale dialettica politica.
Soltanto questa delicata e anche terribile missione ha autorizzato l’invenzione di una formula di governo che certo non ha eguali in altre democrazie. In esse continua ad operare il gioco dell’alternanza, anche se però appare svuotato di significato nelle piazze della rivolta con moltitudini disperate dinanzi alla morsa dei sacrifici ad oltranza imposti dai duri vincoli europei. La parentesi tecnica nasceva proprio dalla preoccupazione del Capo dello Stato di risparmiare ad una democrazia fragile, che aveva appena assistito al fallimento storico del ceto di governo berlusconiano, il costo di una alternanza che era sì possibile ma il cui nettare era da assaporarsi solo in prossimità del cupo baratro.
Proprio perché la soluzione tecnica aveva lo scopo di conservare degli equilibri costituzionali destinati ad infrangersi, il Pd, che avrebbe potuto intascare un sicuro successo alle urne, decise di rimandare i preparativi dell’imminente ricambio a Palazzo Chigi. Rinunciò ad un traguardo ormai sicuro per sostenere un esecutivo anomalo le cui sorti erano da condividere con una destra inaffidabile, sleale, priva di ogni senso dello Stato. La strana maggioranza ha significato proprio questo per il Pd: accettare i costi molto elevati, ai limiti del linciaggio mediatico operato da un certo populismo vagamente di sinistra che ha colpito a raffica continua il Quirinale e la leadership di Bersani visti come gli architetti di una democrazia sospesa.
Pur di preservare una esperienza di governo ineludibile per restituire credibilità al Paese, e però minata dalla quotidiana provocazione orchestrata da una imbarazzante destra post-berlusconiana, il Pd ha accettato il rischio di essere coinvolto in una montante campagna antipolitica. Ad alimentarla sono stati proprio i media della grande borghesia italiana (sulla cui lealtà costituzionale e sul cui senso dello Stato è meglio stendere un pietoso velo di silenzio) che propone di mantenere al governo i tecnici in eterno e per questo gioca a distruggere (magari inquinando anche il voto delle primarie) il più grande partito italiano.
Proprio perché l’esecutivo Monti, che il Pd ha sostenuto sfidando il rischio di una emorragia di consenso, ha svolto in maniera positiva la funzione originaria, la sua riedizione nella prossima legislatura non sarebbe più l’espressione di una originale invenzione istituzionale che si accende solo nei tempi di eccezione. Avrebbe piuttosto le sembianze di una autentica sciagura che attesta una irrisolta crisi della democrazia. Infatti, il nodo della questione è semplice.
O il governo Monti ha mantenuto le promesse, e quindi ha sciolto gli enigmi dell’emergenza per poter così finalmente restituire lo scettro ai cittadini, oppure i tecnici hanno fatto fiasco e quindi anche dopo il voto toccherà di nuovo sospendere la democrazia dell’alternanza. Però qui non si sfugge ad una domanda inquietante: se il governo ha fallito nel preparare le condizioni per un ritorno della politica perché mai dovrebbe tornare in sella?
Il governo tecnico avrebbe dovuto eliminare l’emergenza, non perpetuarla come normale. Chi sta costruendo la tenaglia del Monti bis per scongiurare la pretesa minaccia «neosocialdemocratica» ormai alle porte, pecca perciò di irresponsabilità politica, altro che lungimiranza e senso del dovere.
Sinora l’Italia ha gestito le più amare politiche di risanamento senza attraversare le dolorose rivolte di piazza che agitano la Spagna e laGrecia. La compostezza del sindacato e del Pd hanno tenuto sotto vigilanza una polveriera che però è pronta ad esplodere. Il governo tecnico, per la sua struttura, non è attrezzato per risolvere le grandi tensioni sociali e neppure ha i tratti utili per raffreddare i fenomeni che spingono verso una evidente disgregazione politica. Chiunque abbia a cuore le sorti della democrazia non potrà trascurare di cogliere le insidie minacciose di un prolungamento indefinito della esperienza tecnica. Nessuna democrazia accetta di essere imbalsamata per sette anni senza costruire un deserto di valori nel quale ogni eccentricità è pronta ad attecchire. Certo, l’eterno ritorno in scena del Cavaliere, che come Grillo urla contro l’euro, Equitalia, la Gernania, ha i tratti della tragedia. Alla mancanza di una destra normale bisognerà però abituarsi: illusorio è ogni calcolo di sostituirla con altri imprenditori meno avvezzi nel becero lessico del populismo o dai fantasmi di una nuova unità politica dei cattolici. La persistente vocazione populista della destra (che non può essere rimpiazzata con i tecnici o con nuove candidature all’insegna del liberismo preso sul serio) non può essere tuttavia una ragione sufficiente per far saltare tutto il congegno della democrazia liberale.
Con le primarie il Pd deve restituire dignità alla politica avendo la consapevolezza di essere l’unico soggetto rimasto in piedi dopo la deriva. La prova dei gazebo non deve però cedere alle scorciatoie della comunicazione deviante che va alla ricerca di scontati effetti speciali, o indugiare nell’inseguimento delle facili corde del semplicismo antipolitico, cui proprio molti paladini del Monti bis paradossalmente sono assai sensibili. Le primarie devono essere la prova tangibile che un’altra politica è possibile.
Per questa apertura di dialogo della sinistra con una vasta società civile, ogni candidato deve assumere il rigore della proposta e la serietà degli impegni di governo come base irrinunciabile della contesa.
Proprio le primarie devono mostrare che un governo politico della crisi non è solo augurabile, ma è anche la ricetta migliore per vincere la sfida di un risanamento che altrimenti fa cilecca se non è coniugato con l’equità sociale. La sinistra, con un confronto politico elevato nei contenuti ideali e programmatici, può lanciare al Paese un messaggio forte: la politica non è una opzione, è una necessità.
da L’Unità