Mario Monti ha ribadito ieri ancora una volta il suo impegno a non presentarsi alle elezioni e ha spiegato di ritenere naturale che dopo il voto il presidente del Consiglio sia un esponente del partito vincitore. Tuttavia considererebbe seriamente la possibilità di tornare a Palazzo Chigi, ha aggiunto, qualora «dovesse presentarsi una circostanza particolare, che io spero non si presenti». Sinceramente, lo speriamo anche noi. D’altra parte, la speciale necessità di un secondo governo Monti, a un anno e mezzo dall’inizio della cura somministrata al Paese dal primo, non deporrebbe a favore né della cura né del medico. E ancor meno, di conseguenza, della salute dell’Italia.
Comunque la si pensi nel merito delle scelte adottate sin qui dall’esecutivo, non bisogna dimenticare che ogni sua decisione è legata alla necessità di ottenere l’approvazione di una maggioranza che va dal Pd al Pdl. Pertanto, si può contestare la scelta di costituire il governo Monti nel momento della massima emergenza finanziaria, quando la crescita dello spread sembrava inarrestabile e il rischio di bancarotta dello Stato imminente, così come si può contestare la scelta di non porre termine a questa esperienza nei mesi immediatamente successivi, ma nel criticarne le decisioni non si può dimenticare la natura eccezionale della sua maggioranza, figlia delle circostanze non meno eccezionali che l’hanno resa possibile. Circostanze che giustamente Monti per primo, al contrario di tanti suoi meno responsabili sostenitori, si augura che non si ripetano. E ci mancherebbe: cosa direste di un medico che al termine di un difficile intervento si augurasse di rivedere presto il paziente?
C’è poi un secondo aspetto della questione che non andrebbe dimenticato. Ed è la differenza che corre, per un Paese che ogni giorno guarda con preoccupazione alla possibilità di rifinanziare il proprio debito sui mercati, tra l’avere un presidente del Consiglio che negli Stati Uniti come nei principali Paesi europei persino i capi di governo della sua stessa famiglia politica rifiutano anche solo di ricevere, e l’avere un presidente del Consiglio che ovunque vada si sente ripetere con insistenza la stessa domanda, esattamente come è accaduto ieri al Council on Foreign Relations, e cioè se sarebbe disponibile a tornare alla guida del governo dopo le elezioni. Al suo predecessore, quando proprio non potevano fare a meno di incontrarlo, politici e osservatori internazionali dei Paesi democratici usavano porre semmai la domanda contraria. Non è una differenza da poco. E tale differenza non è senza rapporto con quel problema di credibilità internazionale dell’Italia con cui ancora siamo costretti a fare i conti.
Questa è forse la più pesante eredità del berlusconismo, certamente una delle più durature e difficili da superare, anche perché si inserisce in un’antica e consolidata tradizione di pregiudizi anti-italiani che purtroppo noi stessi, in particolare noi giornalisti, siamo spesso i primi a diffondere.
L’autorevolezza, il prestigio, le relazioni internazionali di Mario Monti rappresentano da questo punto di vista un patrimonio dell’Italia. Un patrimonio che c’è da augurarsi sia investito generosamente nei prossimi mesi a difesa del Paese, del suo sistema economico e delle sue istituzioni democratiche. Del resto, non sarebbe possibile, anche volendolo, fare diversamente. Non è possibile difendere la credibilità dell’Italia davanti agli investitori internazionali o nei vertici europei senza difendere la solidità delle sue istituzioni, la tenuta democratica e civile del Paese, senza difendere la maturità e il senso di responsabilità degli italiani. Quale fiducia si potrebbe chiedere altrimenti, se si accettasse l’immagine di un Paese strutturalmente incapace di darsi un governo politico attraverso libere elezioni, sempre bisognoso di tutele e vincoli esterni, in commissariamento perpetuo da parte delle più mature democrazie europee?
Quali che siano gli incarichi che Mario Monti si troverà a ricoprire nei prossimi anni, l’Italia avrà ancora grandissimo bisogno della sua voce. C’è da augurarsi che la faccia sentire, senza timore di mettersi controvento, come in passato si è già mostrato capace di fare, anche dinanzi a tanti luoghi comuni e certezze consolidate di un mondo finanziario che in questi anni non si è dimostrato certo lo specchio di tutte le virtù. Gran parte dei ritornelli che ancora oggi sentiamo ripetere come verità rivelate in tema di politica economica dovrebbero essere rimasti sepolti sotto le macerie della più grave crisi dagli anni Trenta, cominciata con il crollo di Lehman Brothers nel 2008, quando l’intero sistema finanziario americano ha sfiorato il collasso.
Oggi, però, per uscire dalla spirale rigore-recessione-rigore in cui l’Europa sta sprofondando, c’è bisogno di una svolta. Una svolta che non sarà possibile se rimarremo prigionieri delle vecchie ricette che hanno prodotto la crisi e peggiorato lo stato degli stessi conti pubblici ovunque siano state applicate in questi anni (a cominciare dalla Grecia), ma che richiederà anche il concorso di tutte le energie del Paese, in uno sforzo comune e solidale.
L’Unità 28.09.12