attualità, cultura

"Quella crisi del libro senza sconti", di Maria Galluzzo

Il mondo editoriale fa il punto sulla legge Levi: è servita davvero? «Io non vendo sconti, vendo libri». Alla fine dell’Ottocento Ulrico Hoepli, fondatore dell’omonima casa editrice, replicava così a chi gli chiedeva un occhio di riguardo sul prezzo di un volume. L’editore, che era anche libraio, conosceva in profondità il lavoro che stava dietro la nascita di un libro e il valore speciale che lo caratterizzava. Una merce non qualunque e quindi non svendibile. Un episodio rievocato ieri dall’attuale presidente della casa editrice, Giovanni Ulrico Hoepli, in occasione di un convegno organizzato alla camera dalla commissione cultura per fare un bilancio sulla legge Levi, che appunto regolamenta i prezzi dei libri, a un anno dalla sua entrata in vigore (1 settembre 2011). A discuterne sono state convocate tutte le voci degli addetti al settore – editori grandi, medi e piccoli, distributori, librai indipendenti, di catena e online – insieme ai più alti riferimenti istituzionali della materia: Lorenzo Ornaghi, ministro per i beni e le attività culturali, Paolo Peluffo, sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega all’informazione e all’editoria, e Manuela Ghizzoni, presidente della commissione cultura.
Un giro di orizzonte che parte da un punto da tutti condiviso: l’obiettivo che si pone la legge Levi, e che è riassunto nel primo articolo del provvedimento («Contribuire allo sviluppo del settore librario, al sostegno della creatività letteraria, alla promozione del libro e della lettura, alla diffusione della cultura, alla tutela del pluralismo dell’informazione ») è da tutti ampiamente condiviso. Nessuno mette in dubbio che la bibliodiversità sia un bene che va difeso dalle politiche aggressive degli sconti e dalle strategie dei grandi gruppi editoriali.
Tutti d’accordo sulla necessità che il settore dovesse essere regolamentato, come accade in altri paesi europei. Leader in materia la Francia, dove dal 1981, secondo la legge che porta il nome dell’allora ministro della cultura Jack Lang, nessun libraio può scontare libri più del 5 per cento rispetto al prezzo dell’editore. Oltralpe le librerie sono il cuore del paese. A seguire Inghilterra e Germania.
E non potrebbe essere diversamente in Italia, fa notare il rappresentante di uno dei colossi del nostro mondo editoriale, Alessandro Bompieri, ad di Rcs libri: «In un paese in cui all’incirca metà della popolazione non legge nemmeno un libro all’anno, in cui una percentuale perfino più alta non ha dimestichezza con i testi scritti, in cui l’abbandono scolastico raggiunge livelli sconosciuti alle altre grandi nazioni europee, è cruciale diffondere i libri e la lettura: in qualunque forma, grazie alle piccole librerie o ai centri commerciali o al commercio online o al successo degli ebook. Fallire in questa missione significa minare alle basi ogni tentativo di ripresa, ogni miglioramento della competitività, ogni speranza di rinascita».
Le opinioni, però, si modulano diversamente quando si passa all’analisi dei dati e la domanda diventa: la legge Levi ha contribuito allo sviluppo del settore? Lo sconto sui libri di “varia” consentito per tutto l’anno ai librai fino al 15 per cento, e fino al 25 per cento agli editori nelle quattro settimane di campagne promozionali previste dalla legge, hanno aiutato il mercato librario in tempo di crisi? E ancora, l’aver escluso dicembre dai periodi di queste campagne è stata una buona scelta?
A comparare i dati dell’anno pre e post legge Levi prodotti da Nielsen per il Centro per il libro e la lettura e dall’Associazione italiana editori, l’analisi diventa critica: si comprano meno libri, si legge di meno, si spende meno.
Colpa della crisi o della legge? Più probabile la prima causa. La cosiddetta legge anti-Amazon «ha messo ordine negli sconti mettendo in condizioni di parità la grande e la piccola distribuzione ma è stata fatta durante una gravissima crisi economica e finanziaria e quindi è difficile valutarne l’impatto», nota il sottosegretario Peluffo. In effetti, osserva Stefano Mauri di GeMS, «è stata paracadutata su una foresta in fiamme», ed è quindi molto difficile distinguere gli effetti. Ma ad esame obiettivo è lecito pensare che la nuova disciplina abbia evitato il peggio calmierando i prezzi e sostenendo i fragili editori indipendenti. Mauri però, in compagnia di molti altri colleghi, sostiene che tra le modifiche alla legge sarebbe necessario allungare la durata delle promozioni editoriali che fino ad oggi sono state «segmentate, dispendiose e inefficienti». Soprattutto, aggiunge Bompieri, occorre «eliminare il divieto di sconti a dicembre ». Perché «ridurre il potenziale promozionale proprio nel periodo di maggiore vendita?».
Tra le tante, un’ulteriore domanda: la legge Levi ha perseguito il suo obiettivo di promuovere il libro e la lettura? Stefano Parise, presidente dell’Associazione italiana biblioteche, esprime qualche perplessità: «L’impossibilità di accedere a sconti superiori al 20 per cento ha avuto come inevitabile conseguenza la riduzione del volume di acquisti». Le biblioteche sono considerate «utenti finali».
Un anno dopo la legge Levi dunque si discute. E questo è un segnale molto positivo. La legge per ora ha fatto un buon lavoro, osserva il ministro Ornaghi, trovando «un punto di equilibrio tra esigenze diversificate». Il capitolo è tutto aperto: incombe la digitalizzazione e sulle biblioteche, anello centrale della catena della promozione della lettura, il ministero è pronto al confronto. In ballo c’è il futuro dello sviluppo del paese.

da Europa Quotidiano 26.09.12

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“E UNO SCONTO FA BENE A CHI LEGGE”, di SIMONETTA FIORI

Per i più critici è stata «una bomba», per molti altri «una salvezza». A un anno dalla sua approvazione, è difficile mettere tutti d’accordo sugli effetti della legge Levi, il provvedimento che pone un tetto agli sconti sul prezzo di copertina. Se i colossi editoriali lamentano “una perdita secca di ricchezza”, i piccoli e medi marchi sostengono di ricavarne più vantaggi che svantaggi. E mentre le librerie indipendenti la difendono, le biblioteche ne denunciano il danno, spalleggiate dal ministro Ornaghi che chiede di togliere il limite alle promozioni. Tutti o quasi, però, concordano su un fatto: sarebbe disonesto attribuire alla legge Levi il tracollo nelle vendite dei libri, riconducibile alla crisi economica più grande. E riconducibile anche a cambiamenti profondi nelle abitudini dei lettori.
È una sorta di “stati generali dell’editoria” la platea raccolta dalla Com-
missione Cultura della Camera nella sala del Mappamondo dove sollecitati da Marino Sinibaldi – si sfidano di sciabola e fioretto minuscoli cavalieri e grandi armate del mondo librario italiano. Un mercato fragile, condizionato dai bestseller. E può essere significativo, per la storia dell’editoria italiana, che i pochi raggi di sole provengano oggi dal porno soft di E.L. James. Le cifre complessive sono nere, nerissime (nel 2012 meno 8,7% del fatturato secondo l’Aie, meno 9% dei lettori forti secondo il Centro del Libro, numeri da raffrontare al 2011 già segnato dalla crisi). E se Giovanni Peresson cerca di mitigare il crollo paragonando il cattivo andamento dei libri agli altri consumi culturali (meno 8,8% per la musica e meno 10% per il cinema di
sala), rimane il dato di fondo: il mercato editoriale diventa per la prima volta ciclico, ossia inverte la tendenza che lo ha sempre visto in crescita nelle stagioni recessive.
La crisi colpisce ovunque, ma soprattutto le grandi aziende. Dario Giambelli, amministratore delegato di Feltrinelli, squaderna le rilevazioni di GFK, secondo il quale «tra l’agosto del 2011 e l’agosto del 2012 il mercato complessivo della varia ha perduto 8 milioni di copie e circa 110 milioni di fatturato; di questi ultimi, 90 milioni provengono dalle casse dei primi cinque grandi gruppi». Quanto alla legge Levi, Giambelli la giudica un danno per i lettori: «Solo nelle librerie Feltrinelli abbiamo sottratto ai consumatori sconti per 3 milioni di euro». Non è meno lieve Riccardo Cavallero, gran capo della Mondadori, che definisce il provvedimento «una bomba caduta sul mercato librario». E tutto questo
«in odio al liberismo, e in nome di una malintesa idea di statalismo». Ma che cos’è il liberismo? E cosa lo statalismo? Provvede a correggere i termini Antonio Sellerio, capofila insieme a Ginevra Bompiani del partito (molto applaudito) della “bibliodiversità”. «È statalismo invocare una regolamentazione in un mercato così importante come quello culturale?». In molti, tra editori e librai, si domandano ragionevolmente che cosa sarebbe accaduto se, di fronte a una crisi spaventosa come questa, non ci fosse stata una legge a tutela del prezzo di copertina. E Teresa Cremisi, alla guida di Flammarion, ha buon gioco nell’elencare gli effetti benefici della legge francese (tetto del 5%). Nessuno, aggiunge, protesta per cambiarla. Da noi, invece, più d’uno vorrebbe modificare la legge. In direzione opposta. Tutti d’accordo nel definire troppo debole la forbice tra lo sconto autorizzato (15%) e lo sconto previsto per campagne (25%). Ma se per i marchi medi-piccoli bisogna abbassare il primo, per i colossi bisogna elevare lo sconto delle campagne. La conclusione spetta a Giuseppe Laterza, promotore di una legge sul libro di iniziativa popolare, che ricorda come la crisi culturale in atto non sia solo questione di prezzo di copertina («Ma avete visto come parlano Marchionne e Della Valle?»). Occorre in sostanza una riflessione più ampia, che non si limiti al costo dei libri. Basterà per indurre alla lettura le nostre classi dirigenti? Il dubbio rimane legittimo.

La Repubblica 26.09.12