Il Pd è un partito di governo. È il più grande partito riformista del paese e, attraverso la sua concreta esperienza, ha cambiato in profondità la geografia politica. Un’esperienza e un ruolo che possono essere determinanti con l’avvio della prossima legislatura. Lo snodo delle primarie non sarà indifferente per il futuro del partito e molto dipenderà da come esse verranno gestite, con quale profilo di governo.
È noto, infatti, che il dopo Monti si giocherà prevalentemente sul versante programmatico. Ora, al di là delle ipotesi regolamentari e delle prassi procedurali, pur importanti (noi chiediamo che venga istituito l’albo degli elettori almeno una settimana prima del voto delle primarie), dovrebbe essere chiaro che il Pd non può presentarsi alle elezioni con una pluralità di progetti di governo. Un conto sono le diverse sensibilità culturali che hanno contribuito a fondare il partito e che competono legittimamente alla leadership quando si celebra il congresso nazionale. Altra cosa, radicalmente diversa, è la competizione per la guida politica del paese. In questo caso la ricetta di governo non può che essere unitaria e compatta.
Com’è possibile, al di là di ogni valutazione di merito sulle molte candidature che emergono tra i nostri dirigenti a sostituire Monti, che nel Pd ci siano molti, troppi, progetti di governo? Com’è pensabile trasmettere fiducia e credibilità nell’elettorato di riferimento, e non solo, quando emerge una babele di lingue programmatiche? Il rischio concreto è quello di generare disorientamento e confusione tra i militanti e gli iscritti e nell’intero elettorato. Perché delle due l’una: o il Pd è un soggetto plurale ma si riconosce, attraverso un paziente confronto interno, nella stessa sintesi programmatica, oppure questa “pluralità” culturale è solo fonte di divisione, spaccatura e radicalizzazione delle posizioni. Un epilogo francamente inaccettabile e difficilmente sostenibile anche nel rapporto con l’opinione pubblica, pena la progressiva perdita di credibilità e di immagine. Su questo fronte, dunque, è decisivo indicare le alleanze che si vogliono perseguire e il programma di governo che si vuol costruire. Cosa significa, ad esempio come fa il sindaco di Firenze, sostenere che il candidato premier deve fare le alleanze solo con i cittadini che vede e ascolta e non con i partiti che dovrebbero interpretare e tradurre in proposte concrete quelle istanze? Cosa significa che la costruzione del programma di governo del nostro partito, e quindi del centrosinistra, deve avvenire cammin facendo?
Mentre per la conquista della leadership e nel messaggio della rottamazione qualunque slogan, anche demagogico e populista, può essere ritenuto ammissibile (anche se questo non dovrebbe avvenire tra compagni dello stesso partito), sul fronte programmatico un partito deve essere credibile e chiaro ed i cittadini devono sapere con esattezza ciò che pensa e propone.
Se la sostituzione di Mario Monti è così popolare ed attira molte candidature del Pd, si tratta di capire se siamo di fronte soltanto ad una ambizione personale o se, al contrario, esse sono accompagnate da un organico progetto di governo. Altrimenti il rischio di un dissolvimento è dietro l’angolo. Perché una comunità politica, seppure plurale come la nostra, può implodere se al suo interno permane un confronto tra progetti incompatibili tra di loro. Occorre arrivare rapidamente ad una sintesi. Il progetto è di identità. Ecco perché la campagna per le primarie non può essere ridotta ad un puro fatto mediatico o ad una passerella. Ormai è in gioco il futuro del paese e il profilo del governo. Servono chiarezza, serietà e trasparenza. Per il bene del Pd e per la credibilità della coalizione di centrosinistra.
da Europa Quotidiano 26.09.12