Gli italiani non hanno fiducia nel proprio Stato, nelle proprie istituzioni, ancor meno nei partiti. La cosa era nota da tempo – basta vedere come i partiti governano le regioni, a dispetto di tante promesse di rigenerazione – ma nel frattempo diffidano anche dell’Europa. Nell’articolo pubblicato lunedì su questo giornale, Ilvo Diamanti descrive la progressiva erosione dell’europeismo italiano: la più spettacolare, nell’Unione dei Ventisette. La grande illusione del dopoguerra stinge, vicina a spegnersi. Era una sorta di polizza d’assicurazione («gli italiani preferivano farsi commissariare da Bruxelles piuttosto che farsi governare da Roma ») ma evidentemente non funziona più visto che le istituzioni europee si son fatte arcigne, asservite agli Stati più potenti, abituate a chiamarci, quasi fossimo degenerati in banlieue di traffici illeciti e tumulti, periferia Sud.
Non è euroscetticismo, perché lo scettico è filosofo che interroga, mette in questione i misteri di chiese o ideologie. L’avversione italiana è meno argomentativa, meno incalzante, e come vedremo è bellicosa. Somiglia più all’accartocciarsi di un’illusione che era stata troppo supina, troppo poco politica, pervasa da sotterranea apatia. All’ombra dell’Europa ci si sentiva protetti ma si poteva coltivare il vizio antico del «chi me lo fa fare»: tanto c’era lassù qualcuno che ci amava. L’avversione s’estende e sospetta ormai di ogni istituzione, nazionale o sovranazionale. Aborre il principio stesso della rappresentanza, e in Italia diffida dei politici e specialmente dei partiti, che vorrebbe sostituire con i movimenti. Ma davvero vorrebbe? Un movimento europeista
probabilmente risanerebbe le istituzioni dell’Unione, ma siccome né i partiti né Grillo immaginano che il potere vada oggi preso in Europa, la discriminante non è la forma della politica ma la politica stessa.
Se dunque la stragrande maggioranza degli italiani ha smesso di fare assegnamento su istituzioni e partiti (in Italia, in Europa), in chi ripone la sua fiducia? Se tutti i poteri e corpi intermedi sono esecrati, se ogni delega è truffa:
cosa vogliamo precisamente? Forse una sorta di democrazia diretta, che faccia a meno di corpi intermedi e rappresentanze, come nelle parole di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio.
Ogni persona vale uno, senza delega alcuna, e le grandi e piccole decisioni sono i cittadini a prenderle, tramite la Rete: nuova agorà pubblica dove il popolo – ecco la democrazia – non seleziona i migliori ma governa se stesso.
Non va sottovalutata la potenza educativa del messaggio: se ogni cittadino diventa compos sui, padrone di sé, vuol dire che si sveglia. Non si chiude a riccio, non si china come giunco in attesa che la piena passi, ma s’impegna, scopre che la cosa pubblica lo concerne. Movimenti simili fanno pedagogia: l’Italia era una nazione passiva, non diversamente dalla Germania ovest che dopo il crollo del ’45 era un paese non sovrano, mutilato, smemorato. Passare dalla passività alla partecipazione è una rivoluzione benefica.
Ma anche qui s’annida l’illusione, alimentata da nuovi vizi come il disprezzo delle istituzioni e perfino della Costituzione, giudicata insopportabilmente immobile, non malleabile. S’annida anche la disinformazione. Casaleggio cita spesso l’esempio islandese, i cittadini che sul web «ridiscutono la Costituzione ogni volta che sarà ritenuto necessario»: lo ripropone nel libro che ha scritto con Grillo nel 2011 (Siamo in guerra, Chiarelettere). Ma le cose non stanno così. Non solo l’Islanda è un paese piccolissimo (poco più di 300.000 abitanti), ma quel che è accaduto dopo il 2008, quando il paese sfiorò la bancarotta, è un’innovazione senza precedenti che preserva, tuttavia, l’idea della delega e della rappresentanza.
La costituzione islandese (è copiata dalla Danimarca, da cui l’-I-slanda s’emancipò nel ’44), si è rivelata insufficiente – lo sono quasi tutte, nell’Unione europea – e la revisione in effetti è cominciata online. Ma lo scopo era di eleggere un’assemblea costituente, selezionando 25 cittadini fra 522 candidati. I Venticinque preferiscono dirsi portavoce, non essendo capi di partito, ma per forza diventano un corpo intermedio, una rappresentanza in cui il popolo web decide di avere fiducia. Non solo: il progetto costituzionale è stato presentato in Parlamento, e l’iter si concluderà con un referendum, questo 20 ottobre, che voterà sulla Carta approvata sia dai 25 sia dai parlamentari. Un referendum non vincolante, che «servirà da guida al governo e al Parlamento». Il modello di Grillo non è un’ininterrotta assemblea online, che fa e disfa istituzioni a seconda delle opinioni vincenti. L’idea di istituzioni che durino indipendentemente da maggioranze e governi, permane.
Rivoluzionaria è la discussione preliminare in rete. Ma l’approdo è solo in parte democrazia diretta, e le istituzioni esistenti non sono considerate in Islanda ingombri, zavorra. Se hanno fallito, facilitando il tracollo finanziario del 2008, è perché mancava un efficace sistema di controlli e contrappesi (
checks and balances).
Un sistema che presuppone istituzioni e rappresentanze forti. Altrimenti di chi è il contropotere? Chi frena l’arbitrio di lobby, di chiese, garantendo la laicità dello Stato? Di zavorra si parla molto in questi giorni: troppo. Sono ingombrante zavorra i diritti, le responsabilità delle imprese, le regole, le rappresentanze, le regioni votate per loro stessa natura a sprofondare nella corruzione (Lazio e Lombardia, ma nella lista ci sono anche Calabria, Campania, Molise). L’ex Presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida non ha torto quando mette in guardia contro il desiderio diffuso «di cercare il colpevole di tutto in una o altra istituzione, (…) senza mai domandarsi quali siano le vere cause dei nostri guai: e se non si debba chiedere conto di ciò che ci scandalizza non a questa o a quella istituzione della Repubblica, ma ai nostri concittadini elettori, i quali, col loro voto, hanno mandato in Parlamento e al Governo i famosi «nominati» che hanno approvato e difeso le peggiori leggi ad personam. (…) I «politici» contro cui si inveisce non sono piovuti dal cielo, sono quelli che gli elettori, al centro e in periferia, hanno scelto e premiato. Non c’entra la Costituzione» ( Corriere della sera, 24-9).
Il libro di Casaleggio e Grillo denuncia rappresentanze inconfutabilmente corrotte. È la soluzione che non convince: l’orizzonte di guerra e di zavorra gettata da una superiore intelligenza digitale. Sono zavorra i cittadini che non si connettono (son parecchi, in un Paese che invecchia)? E saranno corretti i difetti dei movimenti online, criticati da Enrico Sassoon che si è appena dimesso dalla Casaleggio Associati? (La Rete è «luogo democratico per eccellenza, al quale chiunque può accedere per dare voce alle proprie opinioni, (ma) può diventare arena di violenza incontenibile, diffamazione incontrastabile, vera e propria delinquenza mediatica», Corriere 23-9). Il film Gaia, concepito da Casaleggio Associati, annuncia una guerra batteriologica fra democrazie dirette a ovest e Russia-Cina-Medio Oriente, che inizierà nel 2020 e finirà nel 2040 con il nostro palingenetico trionfo, facendo circa 6 miliardi di morti. Il miliardo che resta «eliminerà i partiti, la politica, le ideologie, le religioni» (la zavorra), e istituirà un governo mondiale in mano a un’intelligenza
sociale collettiva: Gaia, appunto.
Un parto fobico della mente, Gaia. Fortuna che esiste l’esempio islandese, dove la Rete ha riformato senza liquidare istituzioni, partiti, giornali, religioni. Gaia è una distopia (non un’utopia): indesiderabile sotto tutti i punti di vista. In essa non regnerebbero che corporazioni, lobby, opache sette integraliste. Come nello stato di natura di Hobbes, sarebbe guerra di tutti contro tutti.
La Repubblica 26.09.12
Pubblicato il 26 Settembre 2012