attualità, politica italiana

"Le macerie della destra", di Massimo Giannini

Le dimissioni di Renata Polverini, forse le più lunghe della storia repubblicana, non sono solo l’ultimo atto di una gigantesca ruberia regionale. Nell’uscita di scena della governatrice c’è il tramonto di una carriera personale. C’è il tracollo di un sistema di potere fondato sul saccheggio del denaro pubblico. C’è la tragedia di una destra italiana che consuma la fase terminale della sua balcanizzazione, e di un Pdl che di fatto cessa di esistere come soggetto politico. Sono tutti colpevoli, in questo pecoreccio lupanare romano, metafora solo più rozza e plebea di un verminaio che è anche italiano.
Colpevole è la Polverini. Se non sul piano giudiziario (almeno fino a prova contraria) sicuramente sul piano politico. Ha avuto bisogno di una settimana per capire ciò che era chiaro fin dall’inizio. Di fronte all’enormità dello scandalo che ha travolto la sua Regione, il suo partito e la sua lista, resistere non era solo impossibile. Era prima di tutto irresponsabile. Lei l’ha fatto. Per sette giorni ha tentato di difendere l’indifendibile. La Grande Abbuffata della Pisana e i Toga party alla vaccinara, gli stipendi gonfiati fino a 50 mila euro al mese e gli «ad personam» da 200 mila euro all’anno dei consiglieri, il Suv del Batman di Anagni e le ostriche dei Battistoni e degli Abruzzese.
Davanti alle tre delibere regionali che hanno fatto lievitare da 1 a 14 milioni i fondi pubblici «rubati» dai partiti nel corso dei tre anni della sua consiliatura, non ha capito che non avrebbe potuto recitare (anche lei, come a suo tempo Scajola e poi persino Bossi) la parte della governatrice «a sua insaputa». O forse lo ha capito, ma proprio per questo non ha voluto e potuto fare altrimenti, cioè scaricare su altri colpe che, se non erano sue dal punto di vista soggettivo, lo erano senz’altro dal punto vista oggettivo. Ora parla di «consiglio indegno». Dice di aver aspettato proprio per vedere «fino a che punto il consiglio era vile». La verità è un’altra. Si è illusa che quella patetica sforbiciata ai trasferimenti e alle auto blu, votata in tutta fretta sabato scorso, fosse il colpetto di spugna sufficiente a mondare la Regione di tutti i suoi peccati. Si è lasciata addomesticare da Berlusconi, che le ha chiesto di restare al suo posto per non aprire nel Lazio una faglia che avrebbe finito per inghiottire quel che resta del Popolo delle Libertà. In ogni caso, lei non poteva e non può tuttora chiamarsi fuori, perché è stata ed è parte di quel «consiglio indegno ». Perché dal 2010 ne ha di fatto coperto gli atti e i misfatti. Per colpa (non ha vigilato). O per dolo (ha condiviso). Il risultato politico non cambia. Le sue dimissioni non sanano niente. Al contrario, amplificano lo scandalo.
Colpevoli, sia pure in forma e in misura totalmente diverse, sono i partiti dell’opposizione. In questi anni sono stati testimoni dello scempio, e invece di farlo esplodere lo hanno silenziato, mettendo anche la loro firma sulle delibere spartitorie della maggioranza. Certo (anche qui, fino a prova contraria) non hanno usato quei soldi dei contribuenti per festini in maschera e scorpacciate pantagrueliche da Pepenero. Giurano di averli impiegati per stampare manifesti e organizzare convegni. Insomma, per fare normale attività politica. Ma la quantità anomala di denaro che hanno comunque contribuito a drenare, mentre la Regione triplicava la sovrattassa Irpef e tagliava i posti letto negli ospedali, meritava un altro impiego. E comunque una denuncia pubblica, indignata e fragorosa, che invece non c’è stata. O è arrivata troppo tardi, con le dimissioni in massa annunciate dai consiglieri Pd, Idv e Sel. O è arrivata in modo ambiguo e omertoso, come nel caso dell’Udc.
Ma il vero colpevole di questa devastante catastrofe etica e politica è la destra italiana. Una destra che dà il peggio di sé, da Belsito a Fiorito. Che va in frantumi, da Palermo a Milano. E lascia deflagrare, al centro e in periferia, l’inevitabile diaspora tra le sue «culture » mai fuse perché inconciliabili o inesistenti: il populismo autocratico del Cavaliere, il moderatismo irenico degli ex democristiani, l’affarismo famelico dei cacicchi post-missini. Persi per strada prima Casini, poi Fini e da ultimo Bossi, Silvio Berlusconi non ha riunito queste «anime perse» sotto le insegne del conservatorismo europeo, ma le ha impastate con il fango dei rispettivi interessi (economici e affaristici). Le ha plasmate a sua immagine e somiglianza, secondo i «principi» dell’azzardo morale, dell’arricchimento individuale, dell’impunità penale. Le ha indottrinate di ideologismi demagogici su scala nazionale, ma gli ha lasciato mani libere scala locale. Il risultato è questo. Oggi, con l’ammaina bandiera nel Lazio, il Pdl viaggia a grandi passi verso la dissoluzione finale. Un destino irreversibile, per un partito «personale» che è nato e che morirà insieme all’improbabile maieuta che l’ha creato in pochi mesi e con molti miliardi. Che l’ha dotato di cuore, l’ha nutrito di pancia ma non ha voluto o saputo dargli una testa e due gambe per camminare. Non ha voluto o saputo dargli un’identità e una struttura. Sono penosi, in questi giorni, i conciliaboli a Palazzo Grazioli tra il Cavaliere e Angelino Alfano, i soliti coordinatori e gli impresentabili capigruppo. Ed è ancora più penoso sentire Gianni Letta che sdottoreggia alla Luiss contro «i gruppi di interessi particolari che frenano il sistema» (lui, che di quei «gruppi» è da vent’anni il garante supremo) o Gianni Alemanno che invoca «l’azzeramento totale e la rifondazione del centrodestra » (lui, che da sindaco della Capitale ha assunto plotoni di famigli e di ex picchiatori fascisti
e all’Atac.
C’è questa destra italiana, oggi, sotto le macerie fumanti della Pisana. Ma i miasmi spurgano ovunque. Per una Polverini che fa un passo indietro nel Lazio, c’è uno Scopelliti che resiste in Calabria, un Caldoro che resiste in Campania. E soprattutto c’è un Formigoni che continua inopinatamente a «regnare» in Lombardia. La sua Vacanzopoli ambrosiana può apparire forse un po’ più raffinata nella forma, ma nella sostanza non è meno grave della Sprecopoli ciociara. Sarebbe ora che anche il Celeste ne prendesse atto.

La Repubblica 25.09.12

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“IL PDL E LA POLITICA DEL SI SALVI CHI PUÒ”, di PIERO IGNAZI

I neo-furbetti pidiellini del quartierino laziale vengono da lontano perché sono il prodotto di un modo di intendere la politica che si è affermato negli ultimi vent’anni. Una politica disinvolta e affaristica? In parte sì, ma solo in piccola parte.
C’è qualcosa di più profondo nelle vicende di malversazione del finanziamento pubblico che attraversa tutte le regioni d’Italia, dalla Sicilia alla Lombardia, infangando il “buon nome” del PdL. Tutto ciò è il prodotto di una scelta strategica operata agli albori di Forza Italia e poi accettata da An: lasciare mano libera agli eletti di gestire la politica nelle assemblee rappresentative senza alcun legame, coordinamento o controllo da parte del partito. All’inizio sembrò una salutare rivoluzione rispetto alle antiche prassi di dominio dei dirigenti di partito sugli eletti. Finalmente i rappresentanti rispondevano direttamente agli elettori e da questi soltanto erano controllati. Il PdL ne fece una bandiera: dichiarava di essere un partito “leggero” senza strutture, tutto incardinato sugli eletti nelle varie assemblee. Questa modalità organizzativa consentiva alti livelli di autonomia decisionale in periferia, a meno ché non intervenisse il leader, il quale, comunque, per garantirsi, nominava suoi fiduciari nel ruolo di segretario regionale. Autonomia sì, ma fino ad un certo punto. L’impalcatura ha retto finché il partito andava a gonfie vele.
I benefit di vario genere garantiti dagli uomini del Cavaliere, dall’esposizione mediatica alle prospettive di carriera, ad altro ancora, mantenevano un po’ di ordine. Spento il carisma di Silvio Berlusconi ognuno ha incominciato a preoccuparsi per sé. L’autonomia degli eletti si è trasformata in assalto alla diligenza. Lo scollamento del partito ha fatto scatenare gli appetiti. Le spese folli in feste e cene, che hanno un alone più da Satyricon che da Dolce Vita, proiettano l’immagine di una classe politica dissoluta e dissipatrice. Ma dietro questa immagine c’è la realtà di una ricerca affannosa di relazioni, di consensi, di finanziamenti. Per rimanere a galla è necessario intessere e infittire la rete dei rapporti. Uno stile del far politica che i giovani di Forza Italia avevano già assorbito qualche anno fa: quando vennero intervistati da una ricercatrice francese ammisero candidamente che si erano iscritti perché potevano conoscere persone utili alla loro carriera professionale.
Il mitico partito leggero degli eletti, un modello al quale ben presto si era acconciato anche An, si è rivelato un partito incontrollabile, andato allo sbando alla prima seria difficoltà. La classe politica locale pidiellina ha approfittato più di quelle di altri partiti delle ingenti, esorbitanti risorse messe a disposizione dei gruppi politici dalle regioni (e, seppure in misura minore, dalle province e dai grandi comuni). Lo ha fatto per due ragioni: perché nella sua cultura politica prevale la corsa individuale, il farsi da sé, il ritagliarsi il proprio spazio disdegnando la dimensione collettiva dell’azione politica; e perché la sigla PdL, senza Silvio Berlusconi, rimane un guscio vuoto. Potrà resistere come tante altre organizzazioni sopravvissute al fondatore e capo carismatico (pensiamo al gollismo) ma nessuna di queste era precipitata nello stabbio dello sperpero di denaro pubblico, per di più in una situazione di crisi economica così stringente. I soldi spesi in cene luculliane e festini trimalcioneschi sono in schiaffo alla fatica del vivere di tanti cittadini. Altro che partito degli eletti a contatto con l’opinione pubblica. Il Pdl è ormai un partito alla deriva, incontrollato e autoreferenziale, e con una sola bandiera: si salvi chi può.

La Repubblica 25.09.12

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“Ascesa e caduta di Renata Cenerentola della Magliana diventata regina dei talk show”, di FILIPPO CECCARELLI

PERCHÉ la politica mediatica vive di fiamme e di fumo – con il che un’intera classe dirigente appare in via soffocamento e carbonizzazione. Così adesso è quasi inutile sforzarsi di riconoscere nella cenere ciò che aveva fatto di lei, ex ragazza della Magliana, Cenerentola di un sindacatino quasi inesistente, poi principessa dei talk-show, la Regina del Lazio. E per giunta dopo una specie di miracolo elettorale, «perché i miracoli sono possibili» annunciava lei e il gruppo cattolico tradizionalista di Lepanto, sulla scorta di un fervido rosario anti-Bonino, aveva addirittura individuato nella Madonna del pozzo di Sant’Andrea delle Fratte la sacra icona della vittoria polveriniana.
Chissà oggi a quale (ulteriore) Madonna si potrebbe far risalire la responsabilità di queste dimissioni che di colpo oscurano le obiettive virtù della ex governatrice: simpatia, cioè spontaneità comunicativa, ed energia, cuore, prodigiosa attitudine a farsi sentire «con te» (il suo slogan) a figurare una del popolo, l’«una come tutti» dei manuali di marketing applicato alla corsa elettorale.
Che corsa! Ma quanto terribilmente invecchiati ora, quei ricordi: lei che a Corviale indossa i guantoni da boxe, lei sulla biga elettrica, lei sotto un enorme crocifisso, lei che durante un comizio a un certo punto si era tolta la maglietta per indossarne una di propaganda, restando con il body, tra gli applausi. Una sera Berlusconi, che non sempre è un signore, le disse in pubblico qualcosa del tipo: «Ma lo sai che non sei male?». Polverini anche allora piaceva parecchio alla sinistra, ma almeno alle donne di quella parte dispiacque che al comizio di chiusura fosse rimasta in silenzio quando il Cavaliere le aveva tributato il solito numeraccio sullo jus primae noctis, e insomma: che cosa non si fa per farsi votare!
Polverini era in effetti una creatura di Fini, che però al momento della verità se ne era del tutto disinteressato; al contrario di Berlusconi, che adora forgiare le vite delle persone che gli sono simpatiche. Ecco, la ragioniera Polverini, entrata alla Cisnal come centralinista e nel giro di quattro-cinque anni divenuta segretaria generale, era senza dubbio una di queste persone, e perciò si era generosamente speso per lei, fino a farla vincere.
Come in altre occasioni, l’esito sembrava una favola.
«Quando la mattina mi guardo allo specchio per pettinarmi confessava lei – mi guardo e dico: sei la presidente del Lazio! ». E aggiungeva, almeno nella versione ufficiale: «Non ci si crede!». La lectio più autentica sarebbe: «Non ce se po’ crede!». Polverini infatti, oltre a praticare una certa modestia allora solo in parte auto-promozionale, non sorveglia il suo accento, anche ieri gli è scappato «mejo», «vojo» e anche «sordi ». E’ parte della sua autenticità.
Ma da che mondo è mondo, gli specchi sono molto pericolosi.
Perché l’auto-riflessione richiede costosi parrucchieri, vestiti di lusso, espressioni non sempre sincere e soprattutto aiutano a montarsi la testa. E poi, come ampiamente capito da chi non coltiva la vanità, una cosa è vincere le elezioni, altra cosa è governare. E qui, proprio qui, esattamente qui cadde l’asinello di Poverini che invece, figlia di questo tempo di apparenze, pensava che l’amministrazione coincidesse con la bella figura, la bella immagine, il protagonismo, la visibilità, gli abitucci sempre più pensati, i ristoranti alla moda, i servi, pure alla moda, i salotti, la prima al cinema e al teatro, il festival, il red carpet, la festa, la mondanità, il Cafonal e via dicendo.
Intanto la sanità, che dipende dalla regione, faceva sempre più pietà, per non dire schifo; e le cose serie dell’amministrazione, quelle noiose e complicate da spiegare, rimanevano lì, anzi peggioravano, come il bilancio; e i politicanti del Pdl scalpitavano; e lei furbamente, vista la malaparata di Berlusconi, si rendeva autonoma, arruolava gente, si faceva la fondazione e per festeggiare il primo anno – che francamente è un po’ poco – prenotava Villa Miani per una
gran festa.
A ripensarci nel giorno in cui baldanzosamente e con la dovuta claque ha reso noto di sentire il suo incarico come una gabbia, si è colti da un potente scetticismo dinanzi a questa pretesa liberazione. Il sospetto, per dirla tutta, è che nel gioco demoniaco del potere lei ci fosse caduta con tutte le scarpe, come si dice; e che per far scintillare ancora di più la sua figura nemmeno aveva dovuto mettere da parte il suo carattere, le sue debolezze, le sue passioni: Hitchcock, la carbonara, il solito Battisti, i giubbotti un po’ coatti, i piedi gonfi, le salvifiche ciavatte, l’amore grandissimo per la madre, la gomma americana. Solo che quando doveva togliersela di bocca per andare incontro alle telecamere, c’era una assistente della governatrice che apriva il palmo della mano e, tìc, la buttava dentro il cestino.
E così piano piano, anzi forte forte, continuava a stagliarsi sulla scena pubblica un indefesso, costrittivo, forse inevitabile e straniante espressionismo. Alla festona di Ulisse, sia pure in borghese, e alla Via Crucis di Lourdes, con l’imitatrice alla mensa regionale, nelle pubblicità istituzionali sugli autobus, dentro presepe napoletano, al Gay village,
con i sorcini di Renato Zero, nelle baracche di Auschwitz, leggerezza e piombo, primavera e neve, allegria e dramma, la Todini e i piccoli rom, insomma tutto e il contrario di tutto pur di esserci, figurare, farsi accettare come governante capace, fattiva, di cuore.
Il punto è che nel carnevale elettorale il «popolo» si beve quasi tutto, ma poi gli utenti molto meno, anzi per niente, e se la crisi economica comincia davvero a mordere ecco che il regime del «personaggismo» prima suscita nausea, poi rabbia, poi ti saluto e buonanotte al secchio. E se tanto tanto i cittadini del Lazio erano disposti a comprendere che la loro presidentessa aiutava Califano in difficoltà, beh, quando la videro che con entusiasmo degno di ben altra causa si precipitava a imboccare Bossi, e a sua volta essere imboccata; quando seppero che trovava il tempo di salpare con i «Tevere rangers» («Salutatemi i tunisini!»), o la videro raggiungere in elicottero Rieti, «cuore piccante d’Italia», o lessero che Polverini aveva vietato Facebbok agli impiegati della regione, beh, è ovvio che si andavano allineando tutte le condizioni per sperare che si levasse al più presto di torno, quella lì seguitava a farsi bella in televisione.
Così va il mondo, non solo in politica. Il potere è una bestiaccia che ti fa pure ammalare. Un giorno tentarono di enrarle in casa; poi ci riprovarono. Un altro giorno arrivò in ufficio e scoprì che le avevano messo tre pulci e una micro-telecamera. Hai voglia a proclamarsi «Meglio bulla che nulla»; hai voglia a fare la bulla nei comizi con le «zecche» che dovevano farsi «una cazzo di ragione » della democrazia. Tutto in realtà si faceva scivoloso, avvolgente, scuro, crudele.
Era la vendetta dell’immagine, dei lustrini, della forma, dei salottini tv. Il telepopulismo che prendeva a puzzare di bruciato, l’autombustione del sistema degli spettacoli e di una classe dirigente che nemmeno si accorge di aver preso fuoco. E tra il fumo e la cenere non c’è più nemmeno da rovistare, perché di perle non ce n’è più, anzi forse nemmeno ce ne sono mai state.

La Repubblica 25.09.12