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"La grande baruffa del capitale", di Roberto Mania

«Diego, ma chi sei? Charles Bronson, il giustiziere delle notte?». Raccontano che Luca di Montezemolo, presidente Ferrari controllata dalla Fiat, abbia cercato di convincere l’amico per frenare la sua ira contro «i furbetti cosmopoliti», i due italiani con accento straniero, Sergio Marchionne e John Elkann, che guidano la Fiat diventata americana. Lui, il provinciale, residente in quel di Casette d’Ete, terra di ciabattini, diventati imprenditori globali, contro quel che resta del capitalismo aristocratico sabaudo. Che, persa la erre moscia, è rimasto con la voce roca, di chi dorme poco e fuma tanto, e che, al patron di Tod’s, dice: «Non mi rompere le scatole! ». Questo non era mai successo.
Diego Della Valle gliel’ha giurata al «ragazzino» (John Elkann detto Jaki, erede degli Agnelli) che poi tanto ragazzino non è più essendo ormai passati 36 anni da quando nacque in quel di New York. Se n’è andato sbattendo la porta dal patto di sindacato di Rcs, che controlla il Corriere della sera, proprio contro il «ragazzino» il «funzionario » (Renato Pagliaro, presidente di Mediobanca), e da allora ha cominciato a comprare azioni fino all’8,7 per cento di quel che continua ad essere l’incrocio strategico di chi in Italia vuole il potere. Magari con i soldi degli altri o prendendo ordine da altri. Della Valle, invece, ci mette i suoi soldi e vuole comandare. Capitalismo autentico, vecchio stile: idee, progetti, investimenti, rischio. Pochi debiti. E anche molto paternalismo: con i sindacati non tratta ma per i suoi dipendenti fissa i premi e mette polizze sanitarie e buoni libri nella busta paga.
Anche lui, come Marchionne, continua a pagare un dipendente, reintegrato dal giudice dopo un licenziamento, senza farlo lavorare. Questo è quel poco che li accomuna.
Capitalismo glocal da quasi un miliardo di ricavi, quello di Della Valle. «Io sono un privilegiato e posso dire quel che penso e parlo come sono abituato a fare. Non è elegante? Chiedete agli operai di Termini Imerese se è elegante
la lettera che hanno ricevuto prima della chiusura della fabbrica. Non si può scaricare sul paese le proprie responsabilità ». Lo dice pubblicamente alla Bocconi, lo ripete nelle sue conversazioni private. Della Valle «arruffapopolo », commenta Lupo Rattazzi, consigliere di Exor (finanziaria della famiglia Agnelli), figlio di Susanna Agnelli, sorella dell’Avvocato. «Perché — aggiunge Rattazzi — non c’è nulla di più disdicevole di un industriale miliardario che l’arruffapopolo e che alza il livello dei decibel per segnare punti ed avere titoli sui giornali».
Il patron delle Tod’s non assolderebbe mai un manager come Marchionne. E questo non andrebbe mai a produrre borse e mocassini per quanto con i pallini e per quanto ne sia un utilizzatore. Quasi ne ha disprezzo. Dice l’italo-americano con maglione Tommy Hilfiger ma senza etichetta: «Non parliamo di gente che fa borse, io faccio vetture. Quanto lui investe in un anno in ricerca e sviluppo, non ci facciamo nemmeno una parte di un parafango». Baruffe capitaliste con linguaggio da talk show. Se avesse potuto, Diego Della Valle avrebbe replicato in diretta: «Si vede… », garantiscono i suoi più stretti collaboratori.
Il talk show, dunque. Il botta e risposta, come si fa lungo il Transatlantico di Montecitorio tra politicanti perditempo. Il format, come avrebbe detto Edmondo Berselli, ha conquistato anche la nostra presunta borghesia industriale. «Questa è una vera novità», osserva Giuseppe Berta, storico dell’industria e soprattutto della Fiat. Scontro, ma senza un campo di gioco possibile: l’uno ha deciso di andare all’estero per salvare l’azienda (almeno così sostiene); l’altro sta ancorato a un territorio per conquistare quote di mercato all’estero. Per Marchionne il “made in Italy” è un handicap; per Della Valle è la rampa di lancio, il valore aggiunto.
Ma mentre Della Valle annuncia di aver preso la coppia Elkann-Marchionne «con le mani nella marmellata » dove sono gli altri capitalisti italiani? Con chi stanno? Per chi tifano nel talk show tra industriali? La Confindustria, un tempo lobby potente con l’ambizione di dettare l’agenda alla politica e il vezzo di dare lezioni a tutta la classe dirigente tranne che a sé, tace. Giorgio Squinzi preferisce l’afasia alle gaffe con cui si era insediato al settimo piano di Viale dell’Astronomia. Silenzio. Anche perché Marchionne, che curiosamente ieri parlava all’Unione industriale di Torino, si è liberato dai “lacci e lacciuoli” (certo Guido Carli coniò questa formula pensando a ben altro) della burocrazia confindustriale, dei contratti nazionali e dei sindacati conflittuali. Silenzio che è parte della decadenza confindustriale. Che ora presta i suoi past president (Montezemolo e Emma Marcegaglia) per coprire i vuoti della politica che verrà. Anche questo non era mai successo.
Non resta che l’ultima battuta. Quella che qualcuno ha sentito pronunciare a Della Valle: «È ora che Marchionne si rimetta la giacca. La “prova maglione” non l’ha superata. Il maglione lo lasci a Steve Jobs che si inventò Apple». Alla prossima puntata. Il format continua.

La Repubblica 25.09.12

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“Dal Brasile alla Cina e alla Serbia tutti gli aiuti pubblici al Lingotto”, di PAOLO GRISERI

Ci sono Stati che offrono pacchetti di sgravi fiscali impossibili da rifiutare, altri che pagano fino a diecimila euro per ogni posto di lavoro creato. Altri ancora che concedono finanziamenti a tasso agevolato per coprire fino all’85 per cento dei costi di costruzione delle fabbriche.
Anche nei paesi dove l’economia tira, la scelta dei luoghi in cui realizzare gli stabilimenti è frutto di una sorta di asta in cui vince chi offre le agevolazioni migliori. Alla Fiat (come ai suoi concorrenti) gli aiuti di stato vengono offerti da tutti i governi, dagli Usa alla Cina, dalla Serbia al Brasile. Ecco una panoramica delle agevolazioni ottenute recentemente dal gruppo di Torino nei diversi Paesi del mondo.

Tassi agevolati e bonus fiscali per diventare leader in Sud America

LA COSTRUZIONE del nuovo stabilimento nello stato di Pernambuco è stata la prima occasione di polemica tra Sergio Marchionne e il ministro Corrado Passera. Il governo brasiliano finanzierà con un tasso agevolato fino all’85 la realizzazione della nuova fabbrica che costerà 2,3 miliardi di euro. Inoltre la casa torinese otterrà vantaggi fiscali per cinque anni a partire dalla data di avvio della produzione. Finanziamenti e agevolazioni erano già stati ottenuti nei decenni scorsi dalla Fiat Brasiliana quando era stato realizzato il primo stabilimento, quello di Belo Horizonte nello stato del Minas Gerais. In Brasile il Lingotto ha realizzato uno degli investimenti più redditizi diventando il primo produttore di automobili nell’America del Sud, il mercato che spesso ha sopperito con le sue performance positive ai cali delle vendite registrati in Europa

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Fondi da Belgrado e dalla Bei ma operai pagati 400 euro al mese

LO STABILIMENTO serbo di Kragujevac è stato il primo dove sono stati dirottati modelli inizialmente previsti in Italia. In Serbia finisce infatti, nel luglio del 2010, la produzione del modello L0, quello che oggi si chiama 500 L. Il governo di Belgrado mette sul piatto 250 milioni mentre la Bei, la Banca europea degli investimenti, contribuisce con un prestito di 400 milioni alla ricostruzione post-bellica dello stabilimento dell’ex Zastava. La Fiat mette subito 350 milioni e ottiene fino a 10 mila euro per ogni operaio assunto, oltre ai vantaggi di una zona franca fiscale per 10 anni. Inoltre i dipendenti vengono pagati tra i 300 e i 400 euro al mese. Un vantaggio competitivo notevole anche se, ha ricordato Marchionne nell’intervista a Repubblica, nonostante tutte queste agevolazioni la 500 L costerà di più dei modelli prodotti dai concorrenti.

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Dalla Casa Bianca 7,6 miliardi per il salvataggio di Chrysler

L’OPERAZIONE Chrysler è uno dei più clamorosi casi di finanziamento pubblico nella patria del liberismo. Nel 2009 l’amministrazione Obama (insieme al governo canadese) finanzia con un grande prestito il salvataggio di Gm e Chrysler. Quest’ultima passa attraverso il fallimento pilotato e ottiene dai due governi 7,6 miliardi di dollari che vengono restituiti nel maggio del 2011. Il prestito viene concesso tra le polemiche dei repubblicani (anche se la pratica era stata avviata dal Presidente Bush negli ultimi giorni della sua presidenza). Marchionne festeggia a Auburn Hills la restituzione del prestito con una cerimonia alla presenza dei dipendenti. Anche i sindacati aiutano la Fiat rinunciando allo sciopero fino al 2015 e accettando il dimezzamento delle paghe per i neoassunti.

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Meno tasse per il costruttore e sconti per chi acquista auto

L’AREA di Pune è il cuore della presenza Fiat in India. Uno stabilimento da 650 milioni di dollari realizzato per produrre le utilitarie del gruppo di Torino. Come agli altri marchi presenti in zona, l’insediamento nel paese ha fruttato alla Fiat soprattutto vantaggi fiscali e sconti sui finanziamenti per l’acquisto di automobili che favoriscono chi produce nel paese rispetto ai costruttori importatori. In India la Fiat è alleata con Tata anche se negli ultimi mesi le difficoltà commerciali della casa di Torino hanno suggerito una parziale divisione delle reti di vendita tra i due gruppi. A Pune le potenzialità produttive sono molto alte: 200 mila auto all’anno e 100 mila motori. Attualmente è sfruttata solo una parte di questa capacità produttiva ma ci sono progetti per una ulteriore espansione.

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“Un’offerta da non rifiutare” e la fabbrica cambia regione

LA VICENDA dello stabilimento di Guangzhou nella provincia cinese dell’Hunan è una di quelle storia che dimostrano in modo proverbiale come la concorrenza a colpi di incentivi sia scatenata anche all’interno del Paese della grande Muraglia. La fabbrica che da poche settimane produce la Viaggio, l’auto del gruppo Fiat destinata alla Cina, doveva essere aperta a Canton, la città dove ha storicamente sede la Gac, il socio cinese del Lingotto. Ma il governatore di Hunan ha organizzato un vero e proprio blitz, come se operasse nel calcio mercato e ha convito Marchionne e i dirigenti Gac a colpi di incentivi e sgravi fiscali. «Un’offerta che non si poteva rifiutare», hanno commentato a Torino per spiegare la nuova localizzazione dello stabilimento, 630 milioni di euro di investimento e in prospettiva 3.000 dipendenti.

La Repubblica 25.09.12