"I cervelli che non tornano", di Paolo Valente*
Nel dibattito sul tema della perdita di talenti si sostiene spesso che la mobilità dei ricercatori è positiva, poiché permette di arricchire il bagaglio individuale e favorisce la circolazione delle idee: «Andate e crescete (professionalmente)». In effetti è vero che la propensione alla mobilità aumenta con il livello di istruzione e specializzazione: dei 60 milioni di persone che vanno a lavorare all’estero nei Paesi Ocse circa un terzo ha una laurea. Se si considerano solo i ricercatori, in media il 40% va a lavorare in un Paese diverso da quello in cui è stato educato. Percentuale che sale al 50% se si considerano gli scienziati più citati. Niente di cui preoccuparsi, dunque? Non proprio. Come spesso capita, per comprendere davvero un fenomeno occorre quantificarlo, misurarlo. E anche se la statistica spesso spaventa, la percentuale più semplice e significativa è la differenza tra ricercatori in entrata (educati in un altro Paese), rispetto a quelli in uscita: il bilancio del talento. Ed è questo bilancio, che per l’Italia è in forte perdita, a darci le proporzioni della …