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"Dat: perché sarebbe meglio evitare la legge", di Stefano Semplici

Solo con una robusta dose di ingenuità si poteva immaginare che questa legislatura si sarebbe conclusa senza che si tornasse a discutere del disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Non si tratta, a questo punto, di dare ragione a chi sostiene che tanto lavoro non merita di andare sprecato piuttosto che a coloro che denunciano il significato tutto strumentale ed elettorale della pretesa di approvare definitivamente il testo. Gli uni e gli altri recitano la loro parte in un copione scontato. È meglio allora restare sui contenuti del disegno di legge, per capire cosa accadrebbe davvero e trarne un sommesso suggerimento. Il testo contiene una incongruenza palese, che rende impossibile la chiara identificazione della platea dei destinatari. Nell’art. 1 e nel comma 1 dell’art. 3 ci si riferisce ai soggetti incapaci di intendere e di volere e dunque, per citare solo l’esempio più facile, alle centinaia di migliaia di malati di Alzheimer che si trovino in uno stato avanzato della loro malattia. Ma nel comma 5 dello stesso art. 3 si specifica che «la dichiarazione anticipata di trattamento assume rilievo nel momento in cui il soggetto si trovi nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze per accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale». Questa definizione risulta di difficile interpretazione e applicazione, perfino per molti specialisti, e preferisco allora assumerla nel significato ribadito da Paola Binetti nel dibattito alla Camera: si intendono i soggetti in stato vegetativo, gli stessi ai quali si riferiva il testo originariamente approvato dal Senato. E dunque si parla di una piccolissima percentuale dei pazienti incapaci di intendere e di volere. Per tutti gli altri, che nel pieno rispetto della norma avranno affidato alle dat la loro volontà, esse, semplicemente, non assumeranno rilievo. Trasformando in legge questo pasticcio si aprirà una volta di più la strada ad avvocati, giudici e tribunali.
Tutta questa faticosa discussione non sarebbe mai nata se non ci fosse stata la dolorosa vicenda di Eluana Englaro. La premessa ha condizionato il risultato. Non siamo davanti a un testo che affronta davvero, in tutta la sua complessità, la sfida della attualizzazione della volontà di un paziente che non è più in grado di esprimerla, bilanciando in una situazione per questo delicatissima il principio del rispetto dell’autonomia con quello della tutela del bene della vita. Il vero problema che la legge vuole risolvere, l’unica chiara indicazione prescrittiva, è quella che riguarda l’alimentazione e l’idratazione artificiali. Questo obbligo così formulato è insostenibile, perché introduce un regime differenziato per un trattamento sanitario al quale non possono che applicarsi le regole che valgono per tutti gli altri. E dunque cadrà rapidamente. Si tornerà così al punto di partenza: l’interrogativo sulla possibilità di considerare una volontà espressa in un momento lontano come una volontà vincolante nella stessa misura in cui lo è, dal punto di vista della deontologia professionale e giuridico, quella attuale.
L’ultima riflessione è anche la più semplice. È giusto che nel disegno di legge si affermi esplicitamente che «l’assistenza ai soggetti in stato vegetativo rappresenta livello essenziale di assistenza», ma non è chiaro in che modo saranno finalmente reperite le risorse per accompagnare concretamente le famiglie nelle quali vivono persone colpite da questa come da altre disabilità. I cittadini che non hanno altra sanità possibile che quella pubblica hanno probabilmente buoni motivi per temere che questo livello essenziale non sarà garantito meglio di tanti altri. Sarebbe bello se di queste polemiche rimanesse almeno un impegno concreto e condiviso a non allargare ulteriormente nel nostro Paese le faglie di una disuguaglianza odiosa, perché incide sul primo di tutti i diritti. In caso contrario, la bioetica continuerà ad essere ciò che è stata in questi ultimi anni: un modo per piantare bandiere e consolidare gli schieramenti, se non addirittura un comodo diversivo «senza oneri per lo Stato».
Sarebbe bene rinunciare a questa legge. Meglio però, in caso contrario, andare subito in aula e votare. L’argomento, almeno, sarà tolto dalla campagna elettorale e se ne riparlerà fra qualche mese. Pochi cittadini ne sentiranno la mancanza. E si rispetterà di più la sofferenza delle persone.

L’Unità 23.09.12