A poche ore dall’inizio del vertice di Palazzo Chigi, Sergio Marchionne cala la prima carta sul tavolo: quella del pubblico sussidio all’industria dell’auto. Lo fa con una nota ufficiale in risposta alle affermazioni del ministro Corrado Passera, uno dei principali interlocutori che questa mattina si troverà a dover guardare negli occhi. La prima provocazione era venuta l’altro ieri a San Paolo del Brasile dove Passera, dopo aver visitato gli stabilimenti Fiat, aveva buttato là: «Non c’è scritto da nessuna parte che in Europa non si possa guadagnare
producendo automobili. Ci sono esempi in Europa di aziende che ci riescono. Dobbiamo capire perché la Fiat non mostra risultati altrettanto interessanti ». Considerazioni urticanti
nella loro semplicità. L’ad risponde con l’elenco delle spese fatte dal governo di Brasilia per foraggiare gli stabilimenti del Lingotto. La nota del manager ammette che «considerando l’attuale quadro normativo condizioni di questo genere non sono ottenibili nell’ambito dell’Unione europea». Va osservato che la replica di Marchionne non risponde in realtà alla domanda di Passera che si chiedeva come mai la Fiat non riesca a produrre in modo competitivo «in Europa», e non in Brasile. Inoltre è stato proprio l’ad del Lingotto a porre il problema della 500 L, l’auto prodotta dalla Fiat in Serbia con incentivi e sussidi anche superiori a quelli brasiliani: «Io — ha dichiarato nell’intervista a Repubblica — venderò la 500L a 14.500 euro mentre la Citroen C3 Picasso, che è un competitor, verrà venduta a meno di diecimila per smaltire le giacenze». Perché dunque la Fiat non può comportarsi come i francesi che pagano i loro operai più dei 350 euro dati da Elkann ai suoi dipendenti serbi e riescono a far pagare un modello 5.000 euro di meno? Quali problemi della casa di Torino rendono possibile quel clamoroso divario? La dichiarazione di ieri non servirà probabilmente a rendere disteso il clima di un incontro in cui Marchionne dovrà comunque andare a spiegare che il progetto Fabbrica Italia è fallito e che dunque il Lingotto ha bisogno dell’aiuto di Stato per superare la fase più difficile della crisi senza chiudere stabilimenti o tagliare organici. Probabilmente si tratta di una mossa d’attacco per nascondere l’indubbia condizione di debolezza in cui si trova oggi Marchionne. Costretto a smentire le promesse di tre anni fa, ad ammettere che i sacrifici chiesti ai dipendenti (anche a costo di dolorose lacerazioni tra sindacati) non hanno ottenuto il risultato sperato. E infine a contraddire clamorosamente la filosofia del « Non un soldo dallo stato alla Fiat». Ora che quel denaro il Lingotto sará costretto a chiderlo il governo ha la possibilità di vincolare gli aiuti all’obbligo per la Fiat di mantenere aperti e funzionanti gli stabilimenti italiani. Una ricetta poco liberista? Forse ma è quella degli Stati, dagli Usa alla Germania, dove l’industria dell’auto non rischia di scomparire.
La Repubblica 22.09.12