attualità, cultura

"Il paese di Google", di Nadia Urbinati

LA Casa Bianca è in rotta di collisione con YouTube. L’oggetto del contendere è la limitazione della libertà di parola e di espressione (free speech), il primo pilastro del diritto civile moderno sul quale si reggono le democrazie costituzionali. Google ha deciso di non tenere conto della richiesta della Casa Bianca di riconsiderare l’opportunità di tenere in circolazione il video anti-Islam che ha scatenato la violenza e le manifestazioni anti-americane e anti-occidentali in tutto il mondo arabo. Google si appella all’auto-governo. Google ha precisato di aver già operato affinché il video non violi i termini della legge Americana sullo hate speech (discorso che infiamma odio) e di aver predisposto che il video venga oscurato in alcune regioni del mondo, per esempio l’Egitto, la Libia, l’India e l’Indonesia. Oscuramento temporaneo però, per ragioni di opportunità e prudenza, non censura permanente.
La decisione di Google si basa su una carta diciamo così costituzionale che la compagnia ha adottato nel 2007 per risolvere decisioni controverse. La carta dice che la compagnia nel prendere decisioni sulla pubblicazione di materiale sui suoi siti deve tener conto non soltanto delle leggi e delle politiche dei paesi, ma anche delle norme culturali non scritte, del contesto etico e tradizionale. Di fronte al pluralismo giuridico oggettivo, Google sceglie di mostrarsi sensibile alle “culture locali” e quindi ai sentimenti dei suoi utenti, ma si riserva di decidere, non riconoscendo al governo di nessun paese l’autorità di imporre la sua linea di comportamento.
Il governo mondiale della libertà di pensiero è in mano a chi ha il potere di esercitare questa libertà. Ci troviamo di fronte a un caso esemplare di che cosa significhi “società civile globale”, un dominio di relazioni private che sta al di fuori e in questo caso anche sopra ai singoli governi, i quali mentre esercitano l’autorità sovrana di fare leggi nei loro paesi, non hanno il potere, materiale e giuridico, per interferire sulle decisioni di una compagnia multinazionale, il cui mercato e la cui azione sono globali. Non è forse lo stesso per i diritti dei mercati? Non è forse vero che gli interessi dei mercati finanziari hanno il potere di respingere e addirittura cambiare le decisioni politiche dei governi? Perché la lex mercatoria non fa scandalo quando opera a difesa della società economica globale mentre la rivendicazione della libertà di pensiero e della sua autoregolazione da parte di Google produce tanto scalpore? Google rivendica la sua autorità di governo su questa materia, di curarsi direttamente di monitorare le circostanze, paese per paese, nelle quali operare. Di non subire le leggi dei paesi, nemmeno degli Stati Uniti, dove la compagnia ha sede. Come ogni compagnia multinazionale non è di nessun paese. Ed è questo che indispettisce l’amministrazione statunitense. Google è una cosa a sé, un “paese” a sé quando si tratta di prendere decisioni su che cosa produrre, pubblicare e censurare. E alle critiche che sono piovute dall’opinione pubblica globale Google ha così risposto: «A Google noi nutriamo un pregiudizio (bias) in favore dei diritti della gente alla libera espressione in tutto ciò che facciamo… ma riconosciamo anche che la libertà di espressione non deve o non dovrebbe essere senza limiti. La difficoltà consiste nel decidere dove porre questi limiti ». Una sfida che Google tuttavia non vuol demandare alle autorità dello Stato, di nessuno Stato. È la libertà civile, che vale per i singoli come per le compagnie come Google, a ispirare questa decisione. I governi degli Stati (democratici e no) possono non essere contenti, anzi criticano duramente questa dichiarazione di autonomia decisionale di Google, ma le organizzazioni per i diritti civili, le organizzazioni non profit per la libertà tecnologica e le libertà civili digitali (il Center for Democracy and Technology, per esempio) non possono che essere dalla parte di Google. E così, malgrado gli inviti della presidenza americana, e le promesse in un primo momento di far sparire il video, Google, che controlla il portale come un editore controlla il suo giornale, ha deciso di tenere comunque online il film blasfemo, censurandolo solo in 45 Paesi arabi. Questa decisione viene criticata da quasi tutti i mezzi di informazione. Ma se difendiamo la libertà di Google quando il governo cinese lo oscura per impedire che i suoi sudditi non si scambino idee che non piacciono al potere, se abbiamo difeso la libertà dei giornali italiani contro i tentativi del governo Berlusconi di imbavagliarli, se temiamo e denunciamo ogni intervento repressivo o censorio, come possiamo stupirci che Google si faccia arbitro della sua libertà di parola ed espressione?
Certo, alcuni paesi più di altri regolano la libertà di stampa e di parola, ma nessuno può negare che i più liberi sono quei paesi dove lo Stato accampa meno ragioni di intervento e censura, e dove le corti meglio salvaguardano i diritti civili. L’Italia democratica ha assistito al rogo di Ultimo tango a Parigi, ha sottoposto per decenni pellicole e opere d’arte al giudizio di un ufficio di censura ispirato ai valori religiosi e della pubblica “decenza”. Non possiamo onestamente dire che quella libertà sotto tutela era soddisfacente. Non c’è quindi alternativa all’uso della ragione prudente per risolvere problemi molto controversi caso per caso, senza mettere in discussione i diritti civili fondamentali – ed è proprio per questo che i dirigenti di Google si sono dati regole e norme che riescano a tenere insieme libertà e contesto, principio e cultura locale. Se non che, quella stessa cultura locale nel nome della quale ora si chiede la censura del video di Google, comunica grazie a Google e alle tecnologie digitali, ha bisogno di Google… anche per attaccare ciò che Google rende pubblico.

La Repubblica 20.09.12