"Primo, vedere le carte in mano al Lingotto", di Massimo D'Antoni
Ora che Fiat ha palesato l’intenzione di non tener fede ai programmi di investimento, e si fa strada addirittura il timore di un abbandono dell’Italia da parte dell’impresa manifatturiera nazionale per eccellenza, le reazioni prevalenti dosano in varie combinazioni indignazione e preoccupazione. Indignazione carica di conferme per coloro che possono rivendicare di aver indovinato le intenzioni di Sergio Marchionne fin dall’inizio, a partire da quel grave indizio che fu la mancata presentazione di un piano di investimenti; indignazione mista a imbarazzo per chi con troppa fretta ha concesso credito alle promesse fatte e si sente ora tradito nella propria fiducia. L’indignazione è comprensibile e giustificata: nonostante le note dichiarazioni di Marchionne, la Fiat ha un debito storico verso l’Italia, che va oltre i contributi a fondo perduto (ora cessati ma copiosi in passato), e chiama in causa la politica dei trasporti (sarà un caso se l’Italia ha avuto per lungo tempo la più estesa rete di autostrade mentre ha sviluppato in modo limitato la rotaia?) o le tornate di incentivi alla rottamazione, a vantaggio di …