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Quel triangolo amoroso che può salvare la scuola", di Alessandro D'Avenia

«Alcuni di noi credono di poter cambiare qualcosa. A un certo punto ci svegliamo e ci rendiamo conto di aver fallito». Così dice, riferendosi alla sua professione, Henry Barthes, insegnante di una scuola pubblica americana e protagonista del recente film «Detachment» (Il distacco), interpretato magistralmente da Adrien Brody, il rovescio pessimistico-malinconico del Keating dell’«Attimo fuggente». Uomo di finanza di successo, deluso dalle chimere del mercato, decide di darsi ad un lavoro privo di «consenso» ma con più «senso» per la sua vita e quella altrui. Diventa un supplente. Sì, un supplente per scelta. Non vuole un posto di ruolo, preferisce dover cambiare di frequente scuola e non rimanere troppo «attaccato» alle vite fragili di ragazzi che si aggrappano a lui, in cerca di quel «senso» che altrove non trovano.

Consapevole di non essere all’altezza di ciò di cui hanno bisogno in un mondo troppo liquido nelle relazioni e troppo fragile nelle fondamenta culturali, sconsolato dice: «Questi ragazzi hanno bisogno di qualcos’altro. Non hanno bisogno di me».

Ma di che cosa hanno bisogno, allora?

Lo mostra con eccessivo pessimismo l’intero film: i genitori non si vedono mai. In una sorta di versione tragica delle strisce di Charlie Brown, al massimo se ne sente la voce, distante, incapace di empatia, di ascolto, di tempo, di spazio, per la relazione con i figli, gettati nell’esistenza senza un’anima capace di dare consenso alle cose della vita senza esserne divorati o manipolati.

In una delle scene più malinconiche, la scuola – addobbata a festa per i colloqui – è un deserto dei Tartari, presidiato solo dai professori che attendono invano come sentinelle: non si presenta nessuno. «Dove sono tutti i genitori?» chiede una insegnante alla collega, che risponde: «Non lo so». Un altro replica: «Sono stato due ore in classe, è venuto un solo genitore. Dove sono tutti?».

«Non lo sappiamo». Gli rispondono.

Qualche giorno fa dopo aver lanciato su queste pagine l’iniziativa «Rose e libri» sono stato travolto da lettere, commenti, suggerimenti, offerte di aiuto, da parte di altri insegnanti, di genitori e di ragazzi. Dimostrazione del fatto che la Scuola, per chi ci crede, è una relazione a tre. È l’unico triangolo amoroso che può funzionare se tutti fanno lo sforzo di perseguire il bene comune che c’è in gioco: le vite dei ragazzi. L’unico triangolo amoroso in cui tutti possono essere felici.

Non riesco a capacitarmi del fatto che abbiamo accettato che la Scuola sia invece campo di battaglia tra genitori-docenti-studenti anziché pavimento su cui muoversi per realizzare quel bene di cui parlavo: la scoperta dei talenti e dei punti deboli di un ragazzo o di una ragazza.

L’educazione non è qualcosa che si improvvisa, ma richiede, caso per caso, un progetto condiviso. Che cosa possiamo fare noi insegnanti costretti a colloqui dove si dicono soltanto i voti: ora per la soddisfazione delle madri (raramente vengono i papà) di quelli bravi ora per ripetere a quelle dei meno bravi il ritornello: «ha le capacità ma non si applica». Una relazione frustrante perché ridotta al criterio utilitaristico di produrre voti e promozioni, anziché accompagnare uomini e donne a costruire un’anima «pronta», secondo il verso shakespeariano, che ho proposto ai miei studenti di quinta come motto per quest’anno di maturazione più che di maturità: «Quando la tua anima è pronta, lo sono anche le cose» (Enrico V). Perché non si fanno colloqui ad inizio anno, quando non ci sono ancora voti, per mettersi d’accordo – genitori e insegnanti – sugli obiettivi educativi da raggiungere a casa e a scuola? Perché a questi colloqui in un secondo momento non partecipano anche i ragazzi così da poter ascoltare il loro punto di vista, le difficoltà che incontrano, i sogni, i progetti? Come faccio a insegnare ad un mio alunno la disciplina della terzina dantesca, se a 16-17 anni ancora non rifà il letto da solo?

Se non c’è un progetto educativo condiviso gli insegnanti diventano erogatori di voti, i genitori clienti, gli studenti utenti. Una relazione in perfetto stile utilitaristico, con persone trasformate in prodotti di una catena di montaggio di diplomi. Ma l’uomo non è mai prodotto, mai mezzo, ma sempre fine.

O riportiamo la Scuola alla sua vocazione o ci teniamo questa grande Scuola-Guida, in cui un insegnante con una laurea e un dottorato in lettere classiche, due anni di corso di specializzazione per l’abilitazione vinto dopo un concorso con migliaia di persone per 60 posti, un master, 12 anni di insegnamento, un desiderio sconfinato di continuare a fare questo mestiere, per la Scuola di Stato non è altro che un precario in una graduatoria, abile solo, a meno di 20 euro all’ora, a coprire supplenze temporanee sufficienti a erogare qualche voto, mica a far crescere i ragazzi in una relazione continua nel tempo.

I nostri ragazzi potranno un giorno fare proprie le parole in apertura del film: «È importante trovare una guida e avere qualcuno che ci aiuti a capire la complessità del mondo. Io non l’ho mai avuto mentre crescevo». Mi spiace ma il possibile candidato era incastrato in una graduatoria il cui unico criterio di merito è l’anzianità. A 50 anni volevano dargli una cattedra, ma aveva cambiato mestiere, perché nel frattempo doveva portare avanti una famiglia, nell’Italia alla frusta del dio Spread.

La Stampa 17.09.12