Lo sprofondo che sta ingoiando la Sardegna non è nient’altro che l’orrendo risultato di una serie impressionante di calcoli sbagliati, di pregiudizi, di errori di valutazione. La piccola patria delle grandi promesse oggi si sgretola di fronte all’impossibilità di mantenerle. Era solo il 2009 quando, accompagnato dal candidato più anonimo a disposizione: il dottor Ugo Cappellacci, l’onorevole Silvio Berlusconi cominciò a battere palmo a palmo l’isola con l’intento di ribadire nell’ordine che, come Caligola, in Sardegna poteva candidare persino il suo cavallo; e che la stagione Soru, a suo dire funerea e luttuosa, andava immantinente archiviata a favore di una stagione di sorrisi e bengodi. Così iniziò la campagna elettorale più capillare che la Sardegna avesse mai visto. E ad ogni tappa si raccoglievano folle di sardi vessati dall’orrido Mister Tiscali che chiedevano pane e circensi. Le barzellette, come nella migliore delle tradizioni berlusconiane, si sprecarono, e tutti risero. Straordinaria la tappa in cui all’onorevole primo ministro fu consegnata dalle mani del segretario Trincas la bandiera quattro mori; straordinaria la competenza archeologica da lui dimostrata quando si espresse a proposito della vera destinazione dei nuraghi in quanto «magazzini per le merci» e non, come erroneamente sostenuto dagli accademici locali, «case fortificate».
Non c’era da stupirsi, dal punto di vista dell’onorevole Berlusconi nessuno meno degli imbelli sardi ha, aveva, avrebbe mai avuto bisogno di case fortificate. Seguirono pranzi dai vescovi e bagni di folle operaie. Nel Sulcis la parola d’ordine fu «non date retta a Soru che vuole chiudere le miniere e mandarvi a casa, ma a me che ho amici ricchi che sono disposti a rilevarle e mantenere tutti i posti di lavoro». Voti a palate. Di fronte agli operai dell’Alcoa la formula cambiò di poco, «ho appena parlato con i miei amici finanzieri che sono interessatissimi a riqualificare la struttura e renderla nuovamente competitiva». Voti a valanga. Ottana e Portovesme capitolarono grazie alla meravigliosa prospettiva di una nuova, imminente, rinascita sostenuta dall’ottimismo e dal sorriso, contro le prospettive di lacrime e sangue minacciate da Mister Tiscali. A La Maddalena si dovette promettere il G8 come risarcimento per essere stata derubata della Base Nato da quel comunista del governatore precedente. Voti su voti. Intanto la congiura dei Boiardi della sinistra locale festeggiava il ripristino di quello status quo, il massimo del risultato col minimo sforzo, che metteva d’accordo tutti. Ai costruttori, frenati da un Piano Paesaggistico severo, si raccontò di un’isola ciambella dove una città continua di villeggianti avrebbe abitato chilometri e chilometri cubi di nuovo cemento, portando prosperità immensa per tutti quei locali che avrebbero fatto i muratori, i manovali, i giardinieri, i guardiani e le cameriere. Ai pastori si raccontò che la loro situazione dipendeva dalle scelte europeiste dei comunisti. Mangiammo e bevemmo tutto. Segno che, con ogni probabilità, la promessa di una speranza supera il realismo della ragionevolezza. E che per quanto asciutto fosse il modello soriano non poteva attecchire in una società annichilita da decenni di abitudine all’assistenzialismo.
I voti dei minatori, degli operai, delle località costiere dimostrarono che il volto anonimo del dottor Cappellacci era come l’oggetto lasciato in pegno ai sardi per l’avverarsi di tutte quelle promesse. A chi diceva che quelle promesse non si potevano mantenere, risposero che il calvinismo soriano era finito e che ora iniziava l’edonismo berlusconiano. Dimostrarono che ai sardi, quando ringhiano, basta allisciare il pelo come si fa con un cane inquieto. Lo sfascio attuale era scritto a lettere di fuoco nella cronaca della caduta del garante. Il suo rappresentante locale, il governatore Cappellacci, pallidamente ha tentato manovre di affrancamento, ma quelle stesse forze che l’hanno portato al governo oggi abbandonano la nave che affonda.
Siamo stati ingannati e abbiamo amato farci ingannare, ora che le miniere del Sulcis non le vuole nessuno; che l’Alcoa Ottana, Porto Torres, e tutto quel polo industriale trapiantato nell’economia di quel territorio come un parrucchino, marciscono in una irrisolvibile crisi di rigetto; che i soldi del G8 hanno attraversato il mare senza più tornare; che le zone interne sono in un completo stato di abbandono; ora che neanche il metadone del cemento senza regole sembra più tanto consolante si ragiona ancora sul breve termine: sul mese prossimo, sull’anno prossimo, sul principio che ai sardi arrabbiati basta il tozzo di pane di un ulteriore differimento della fine. E viene da dire che solo chi vuole vedere una realtà che non esiste può tacere che noi sardi stiamo pagando molto care le scelte che abbiamo fatto. E’ il prezzo della democrazia.
* Scrittore sardo, finalista dei premi Strega e Campiello. I suoi libri sono editi da Einaudi
La Stampa 15.09.12
Pubblicato il 15 Settembre 2012