LA «discesa in camper» di Matteo Renzi è una novità politica oggettiva. Va giudicata senza pregiudizi. In un Paese marchiato a fuoco dal delirio di potenza berlusconiano e da un establishment impermeabile al ricambio, la sfida lanciata a viso aperto da un trentasettenne è di per sé una scossa salutare. Il problema, per l’Italia che chiede un governo credibile e per il Pd che si candida a guidarlo, è capire la natura della scossa, e la cultura che la muove. Il sindaco di Firenze comincia a dare qualche risposta. Ma i dubbi restano. Nessuno vuole rivivere gli incubi della «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto: ma dove porta il camper di Renzi? Nessuno vuole rivangare i sogni delle antiche famiglie politiche del Novecento: ma cosa c’è oltre la «dottrina del nuovismo» purchessia?
Il «manifesto di Verona», con il quale avvia ufficialmente la sua corsa per le primarie, è la cosa migliore che Renzi abbia prodotto in politica finora. Il mezzo è vecchio (il camper lo usò Craxi nei ruggenti Anni Ottanta, con esiti non proprio felici). Il messaggio è abusato («Adesso» è lo stesso slogan adottato a suo tempo da Dario Franceschini, esponente dell’esecrata «nomenklatura »). Ma nell’insieme, il sindaco ha fatto un discorso brillante nella forma, qua e là persino convincente nella sostanza. Soprattutto, forse per la prima volta, ha azzardato uno sforzo per riempire di contenuti una piattaforma programmatica che fino ad oggi era apparsa clamorosamente vuota.
L’obiettivo è stato raggiunto solo in parte. Il «sincretismo» renziano, da generico qual era, diventa ora magmatico, a furia di distinguere tutto quello che serve all’Italia «dei prossimi 25 anni». Dentro c’è di tutto. E c’è anche troppo (mutuato dalla collaudata residenza fiorentina e dalla recente esperienza alla convention obamiana di Charlotte). La «civil partnership» e il «freedom information act». La difesa dello «ius soli» e la critica all’articolo 18. La richiesta di aiuti fiscali alla famiglia e lo stop ai vitalizi dei parlamentari. L’attacco alla «burocrazia forte» dentro il partito e l’accusa all’«Italia dei capi di gabinetto » asserragliati dentro i ministeri. Renzi, una volta tanto, prova ad uscire dai panni del truce e semplice rottamatore degli «apparatciki». Tenta di accreditarsi anche come «costruttore» di un progetto nuovo e diverso, con il quale non vuole limitarsi a vincere la battaglia per la leadership del Pd, ma anche quella per la premiership del Paese. Ma in questo la strada da fare è ancora lunghissima. Non basta evocare «l’agenda Monti» come fosse un esorcismo. Non basta invocare la triade «Europa, futuro e merito» come fosse una formula magica. La proposta politica renziana resta incerta e sfocata, soprattutto dal punto di vista identitario.
Il sindaco ha ragione a bollare la «foto del Palazzaccio» che immortala Vendola, Di Pietro e Diliberto, simbolo di un pezzo di sinistra irriducibile e minoritaria che non vuole vincere mai. Ma ha il dovere di spiegare qual è il centrosinistra responsabile e maggioritario che lui propone agli elettori delle primarie. Quali sono i suoi valori nella crisi violenta del lavoro e del Welfare, e come si declinano e si bilanciano tra loro l’uguaglianza, la libertà, la solidarietà. Allo stesso modo, il sindaco ha ragione a voler predicare in «terra di infedeli», andando a cercare consensi anche nella metà del campo dei tanti delusi da Berlusconi. Ma non può non vedere che la ricerca affannata del Sacro Graal del voto moderato al centro rischia di far perdere al partito quello del voto radicato a sinistra. Non può non accorgersi che se Angelino Alfano si spinge a dire «Renzi è uno dei nostri, se perde le primarie voterà per il Pdl», la sua piattaforma culturale e politica è a dir poco ambigua, se non addirittura ambivalente.
Certo, è anche seducente. Ma alla fine rischia di esserlo perché intercetta l’onda d’urto del «rinnovamento » a ogni costo, che tutto convoglia e tutto travolge. Un’onda alta che c’è nel Paese e che c’è anche nella sinistra. Che andrebbe ascoltata. Ma anche «domata» e depurata di quel tanto di qualunquismo e di populismo che la fa crescere. Non solo cavalcata in nome del «nuovo che avanza», spesso privo di altri obiettivi se non quello di spazzare via il «vecchio che resiste». Su quest’onda il camper di Renzi sale con oggettiva destrezza mediatica. E poiché l’onda si gonfia, Bersani farebbe bene comunque a non sottovalutare un avversario che persino da perdente potrebbe scompaginare il campo già squassato del Pd.
Qui si apre un altro problema. La debolezza identitaria di Renzi è speculare a quella nella quale sta lentamente e pericolosamente scivolando lo stesso Bersani. Preda di troppe pressioni esterne e di troppe contraddizioni interne, il segretario rischia a sua volta di vagare nella zona grigia che si apre tra il movimentismo dell’ala renziana e il radicalismo dell’anima «socialdemocratica ». È il difetto di fabbrica di questo Pd, che arriva alle primarie senza ancora sapere cos’è. Un partito che spera sia proprio il rito purificatore delle primarie a forgiare il suo profilo identitario. Senza capire che un’identità, se c’è, esiste prima e resiste anche dopo. Le primarie servono solo a selezionare il leader più capace a incarnarla. A trasformarla in programma. Ad offrirla, condivisa e risolta, ai cittadini-elettori.
La Repubblica 14.09.12
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