C’è anche qualche storia che finisce bene: la scuola più multietnica d’Italia, la statale «Lombardo Radice» di Milano, da oggi ha nuovamente la sua prima elementare. L’anno scorso era stata cancellata perché aveva «troppi stranieri». Un provvedimento che condannava di fatto la scuola, considerata un modello ben riuscito di integrazione, alla chiusura fra cinque anni.
Invece questa mattina all’ingresso di via Pier Alessandro Paravia 83 – quartiere San Siro – si presenteranno, per il loro primo giorno di scuola, ventun bambini di sei anni. Diciotto di loro sono stranieri.
Una quota in linea con la tradizione della «Lombardo Radice», che due anni fa aveva 93 alunni stranieri (di ventisette nazionalità diverse) su un totale di 97; e l’anno scorso 80 su 93. Quest’anno, se i conti non sono sbagliati, gli stranieri saranno l’83 per cento.
Ma che cosa vuol dire, poi, stranieri? Dei diciotto bambini «non cittadini italiani» (e tutti non comunitari) della prima elementare, quattordici sono nati in Italia; e tutti hanno comunque fatto le scuole dell’infanzia a Milano.
Per noi sono dei piccoli milanesi», dice il vicesindaco Maria Grazia Guida, che questa mattina sarà in via Paravia con il presidente della commissione scuola del Consiglio comunale, Elisabetta Strada; con il consigliere provinciale del Pd Diana De Marchi e con il presidente del comitato dei genitori Domenico Morfino. Tutte persone che si sono date da fare, in quest’ultimo anno, per mantenere in vita la scuola.
Ma perché era stata chiusa? Perché c’era una norma del ministro Gelmini ora abrogata da Profumo – che fissava un tetto massimo di presenza di bambini stranieri per classe: trenta per cento. «Non era una norma del tutto campata per aria, il trenta per cento è una quota indicata dai maggiori esperti di integrazione», dice Diana De Marchi del Pd: «Ma abbiamo cercato di far capire che bisognava interpretare caso per caso. Quando i bambini sono nati in Italia e in Italia hanno fatto le scuole materne, le difficoltà di integrazione linguistica sono minori».
Insomma si è capito che la legge è fatta per l’uomo e non viceversa, e «si è data più importanza alla biografia dei bambini, cioè al luogo di nascita e alle scuole fatte, mentre l’anno scorso si erano solo guardati i cognomi», dice ancora Diana De Marchi. Per molte famiglie la chiusura era stata un brutto colpo. La scuola è praticamente l’unica presenza dello Stato in questa parte povera del quartiere ricco di San Siro; e frequentarla, per i bambini ma anche per i loro genitori, era la migliore possibilità per integrarsi. Papà e mamme avevano anche provato, invano, a far ricorso in tribunale; i bambini avevano scritto al presidente Napolitano. Alla fine, la battaglia è stata vinta.
Anche se ora va proseguita. «Il Comune», dice il vicesindaco Guida, «sosterrà la didattica per venire incontro a eventuali difficoltà, e avvieremo iniziative per collaborare con la scuola elementare vicina di via Giusti». Che è la scuola dove molti genitori italiani mandano i loro figli per timore della eccessiva «multietnicità» di quella di via Paravia. Così si sono creati due mondi: quasi tutti italiani in via Giusti, quasi tutti stranieri in via Paravia. «Adesso», dice ancora Maria Grazia Guida, «coinvolgeremo i genitori italiani di via Giusti, l’obiettivo è che dall’anno prossimo gli studenti siano distribuiti in modo più equilibrato fra le due scuole. Il mondo sta andando incontro a grandi trasformazioni e come dice il cardinale Scola dobbiamo capire che le diversità arricchiscono».
Mancherà, questa mattina all’apertura, la seconda elementare. Ma è la conseguenza di quello che ormai, in via Paravia, è solo un brutto ricordo.
La Stampa 12.09.12
Pubblicato il 12 Settembre 2012