Un vertice di «lotta ai populismi » è l’idea, proposta da Mario Monti a Cernobbio, che da qualche giorno occupa le menti a Bruxelles e dintorni. C’è dietro un’intuizione giusta. Una intuizione sul presente disagio della civiltà europea: sulla sfiducia, sul risentimento che monta contro l’Unione. Quel che non convince è il linguaggio dei proponenti, ed è il vuoto di iniziative che l’annuncio prefigura. Non basta affibbiare agli antieuropei un epiteto –
populista – che svilisce ogni loro argomento ed è quindi inadatto a reintegrare quel che si sta disgregando. Anche la bellicosa parola lotta è incongrua, soprattutto quando la strategia si riduce a quella che Monti chiama «manutenzione psicologica e politica» di tanto diffuso malessere. Manca l’analisi dei motivi per cui si moltiplicano i moti di rigetto, nati da un’austerità che ha sin qui generato recessione e povertà. Manca soprattutto una rifondazione dell’Unione che vada oltre la manutenzione.
«Io penso semplicemente a una riflessione, non al percorso successivo», così Monti a Sarajevo: come se fosse sufficiente un dibattito, nel quale i medici d’Europa si chinano, sicuri delle proprie ricette, sui pazienti che giacciono ai loro piedi sempre più infermi e meno pazienti.
Se così stanno le cose è proprio il percorso successivo che conta, ben più del dibattito. Se quasi tutto un popolo, in Germania, attende il verdetto che domani darà la Corte costituzionale su Fiscal compact e Fondo salva-Stati, e se l’attende nella convinzione che la sovranità del Paese e del suo Parlamento siano stati lesi in nome dell’Europa, vuol dire che siamo in un’epoca di nervosità, di torbidi, nella quale ciascuno Stato e ciascun popolo è in lotta contro il presunto nemico del bene. Chi combatte tali nemici non ha bisogno di mettere se stesso in questione, di inventare farmaci diversi. La colpa è tutta dei populisti, dicono in Italia. È tutta dei debitori, dicono in Germania. Non dimentichiamo che Schuldin tedesco significa due cose, debito e colpa: spostata sul terreno morale, la battaglia si fa cruenta. Non dimentichiamo che Weidmann, governatore della Bundesbank, è sconfitto nella Bce ma vincitore politico in patria.
Occorre dunque che i capi di governo e le comuni istituzioni facciano l’Europa veramente, ne discutano con le società (Parlamenti nazionali, Parlamento europeo), e non si limitino alla gestione psico-politica di popoli minorenni o depressi. Occorre, da parte dei comandanti d’Europa, quella che Albert Hirschmann chiama auto-sovversione, auto-confutazione: non sono fallite solo le misure ma anche le dottrine dominanti, avendo prodotto un’Unione divisa fra creditori e debitori, e aumentato disuguaglianze e povertà. Una lotta d’altro genere s’impone, che conduca all’Europa politica: rifondando ed estendendo i perimetri geografici dell’agire politico, partitico, democratico. Dando all’Unione una costituzione vera, scritta dai popoli rappresentati nel Parlamento europeo e sottratta al “possesso” degli Stati. L’obiettivo non è astratto. Urgono piani di investimento, e una crescita che sarà duratura a patto di cambiare natura (puntando su ricerca, energie alternative, istruzione, comune difesa): solo un governo europeo può farlo – con un bilancio consistente approvato da un comune Parlamento – visto che gli Stati non hanno più soldi. Gli esperti concordano nel dire che i risparmi sarebbero enormi se la crescita fosse fatta in comune, e consentirebbero cali di tasse nei singoli Paesi.
Solo così si dimostrerà che a comandare non sono lontani oligarchi, e che le terapie adottate sono confutabili come è confutabile in democrazia ogni po-litica, ogni leadership. L’ultima mossa di Mario Draghi è ottima, ma finché a muoversi è un organo tecnico, per legge a-politico, non affiancato da un governo, un Tesoro, un fisco europeo, è mossa insufficiente. Se i politici pensano che il grosso è fatto, grazie a Draghi, si sbagliano: perché tocca a loro l’azione decisiva, e il grosso non consiste né nella lotta ai populisti né nella cura di mantenimento. L’una e l’altra mantengono lo status quo e fanno morire la politica, che in democrazia è ricerca di alternative e conquista di consenso popolare, non di consenso dei mercati. Quelli che vengono definiti populismi sono figli di questo status quo, e di questa morte.
Ci s’indigna quando Grillo dice: «I politici sono morti che camminano». Sono parole fatue, essendo rivolte indiscriminatamente a tutti. Ma sono vivi
i politici, e la sinistra, e la destra? Se tutti aspettano i governatori della Bce o i giudici di Karlsruhe come si aspetta Godot, vuol dire che c’è del vero nell’ira gridata da Grillo: sono quattro anni che i governi sono impelagati in politiche sterili, che hanno portato paesi come la Grecia a una contrazione di redditi e servizi pubblici senza eguali nel dopoguerra, che hanno azzerato il controllo democratico sui rimedi dell’Unione, e dilatato l’imperio di oligarchie allergiche alla politica per obbligo o per scelta. Che è la manutenzione dell’esistente, se non perpetuare la tara dell’euro-senza-Stato? L’Europa unita si farà solo con i popoli, e solo se la politica riacquisterà il primato ceduto negli anni ’70 ai mercati. Rinascerà – la politica come professione– se si trasforma alle radici, se le scelte fatte sono riconosciute sterili, come il chicco di grano che solo morendo produce molto frutto. La via non è abolire i partiti, o il contrasto classico destra-sinistra. Il liberalismo si nutre del conflitto fra idee alternative della società, della politica, dell’economia. Il migliore è selezionato nella gara, nella disputa. Dai tempi di Pericle questo è democrazia: «Qui a Atene noi facciamo così. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Benché in pochi siano in grado di dare vita a una politica, tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla». Come giudicarla, se chi confuta è ostracizzato come populista? Resta che la disputa dovrà mutare volto, e rotta. Sinistre, destre, partiti, sindacati dovranno dare una dimensione europea a programmi e delibere, e imparare l’agorà dell’Unione. Non possono nascondere a militanti e cittadini che in Europa gli Stati nazione non hanno più gli strumenti per fronteggiare la crisi, che sono troppo piccoli nell’economia mondo. Mai le sinistre riusciranno a salvaguardare il modello sociale e democratico della Comunità postbellica, se l’ottica resta nazionale.
Sovvertire se stessi non significa abolire destra e sinistra, e sognare
comitati d’affari che curino, al posto di inetti politici, interessi e poteri di industrie obsolete. Anche questo va ricordato: sono i comitati d’affari che, fidando per trent’anni nelle virtù riequilibratrici dei mercati, hanno causato la crisi del 2007-2008. Auto-confutarsi serve a scoprire quali sono le nuove linee divisorie: tra forze che chiedono un’Unione federale, e forze aggrappate a sovranità nazionali fasulle.
Prendere il potere in Europa e non più nella nazione, visto che è lì e non qui che esso si esercita: ecco la missione per sinistre e destre. Un vertice dell’auto-sovversione: questo sì sarebbe benvenuto!
Napolitano ha detto proprio questo, il 6 settembre a Mestre, parlando di
nuove mappe d’Europa: nell’Unione non esistono discorsi simili, lungimiranti e severi sulle cose fatte e da farsi. Il Presidente ha denunciato i limiti delle misure anti-crisi, e indicato la via d’uscita. I partiti (parafrasando Paul Reynaud, fondatore con Monnet della Ceca) devono europeizzarsi o perire. Non cadono infatti dal cielo, «il ripiegamento, l’immeschinimento, la perdita di autorità della politica». O l’«impoverimento ideale (delle forze politiche), gli arroccamenti burocratici, l’infiacchimento della loro vita democratica, il chiudersi in logiche di mera gestione del potere e di uno scivolare verso forme di degenerazione morale».
Di questo degenerare sono artefici i partiti, non il mercato, e a loro spetta sanarlo, cessando di stipare l’Unione negli armadi della politica estera. Le parole di Napolitano sono altamente realistiche, non retoriche. Invocando l’europeizzazione di Stati, partiti, movimenti, egli cita un padre del federalismo, Mario Albertini: «Il “punto di non ritorno” (dell’unità europea) non potrà essere che propriamente politico. È il momento in cui la lotta politica diviene europea, in cui l’oggetto per il quale lottano uomini e partiti sarà il
potere europeo».
Lottare per la conquista del potere in Europa e per il suo controllo democratico: non è missione piccola, per una sinistra che voglia salvare i due pilastri dell’unità europea concepiti nel pieno dell’ultima guerra; il pilastro antinazionalista e quello dello Stato sociale, il Manifesto di Ventotene dell’agosto ‘41 e il rapporto Beveridge sul Welfaredel novembre ’42. Anche le destre hanno contribuito al doppio pilastro (da Adenauer e De Gasperi a Kohl): oggi constatiamo che son divenuti custodi delle vecchie sovranità nazionali. È un buon programma, per una sinistra che non vuol perire, come ha fatto per decenni, dedicandosi alla pura manutenzione.
La Repubblica 12.09.12